Un giovane studente goriziano s’imbarca per il Sud America e va a fare il gaucho; vive solitario in Patagonia, a contatto con la natura selvaggia e con il pensiero rivolto all’amico filosofo, che nel frattempo si suicida senza motivo; ritorna nella Venezia Giulia ormai italiana del dopoguerra; cerca ancora la solitudine, mentre la Storia scorre intorno terribile; l’Istria è il suo estremo rifugio, fino alla morte, che ha luogo nel 1959.
Si fa a fatica a credere che si tratti di una storia vera, ispirata a una vita realmente vissuta in una forma moderna di ascetismo, eppure questa è la sintesi di un romanzo, «Un altro mare» di Claudio Magris, pubblicato per la prima volta nel 1991. Il libro ricostruisce la vicenda di Enrico Mreule in modo preciso e documentato, anche se il narratore alla fine ammette che il protagonista potrebbe essere morto già nel 1933; i personaggi – Enrico, detto “Rico”, i due fratelli Carlo e Paula Michelstaedter, Nino Paternolli e le sorelle Cassini – sono tutti realmente esistiti, così come sono vere le vicende ricostruite da Magris, soprattutto sulla scorta della testimonianza del poeta Biagio Marin. Eppure il lettore ha la netta sensazione di leggere qualcosa di inverosimile.
In realtà, Magris vuole parlarci principalmente di idee e di sentimenti, di concezioni e di stati d’animo, materia densa e complessa che lui ricollega, in modo non artificioso ma meditato, a fatti realmente accaduti e a lui vicinissimi. Questi ultimi dunque non sono inventati, ma hanno al contempo qualcosa di paradossale, dalla fuga senza giustificazione di Enrico in Patagonia al suicidio inspiegabile dell’amico Carlo (che adopera per uccidersi la pistola lasciatagli dallo stesso Enrico!); il lettore è calato in un’atmosfera irreale, quasi di «angoscia spaesante». Il ricordo della vita di Enrico e il riferimento preciso al contesto storico e culturale in cui egli è vissuto fanno sostanzialmente da veicolo al messaggio di Carlo Michelstaedter, l’amico fraterno suicida, poeta e filosofo. L’impressione, in altre parole, è che la Storia e gli avvenimenti realmente accaduti siano poco più di un pretesto per creare uno sfondo realistico a una vicenda che affronta problemi che vanno ben oltre l’attualità e la contingenza storico-politica. Il rinvio, voluto ed esplicito, dell’autore è alle opere di Michelstaedter, «il Buddha dell’occidente», segnatamente al «Dialogo della salute» (con gli interlocutori Enrico, Carlo e Nino) e, soprattutto, a «La persuasione e la rettorica». Anche sul piano narrativo Carlo è il “destinatore” di Enrico: ammira il suo coraggio di partire in incognito per un viaggio, quello in Patagonia, che lui stesso ha ispirato, un viaggio nella grande immobilità del mare, dove nulla lascia veramente un segno:
le braccia che nuotano non lo stringono, lo allontanano e lo
perdono, lui non si dà.
L’oceano rappresenta ai suoi occhi l’immensità dell’Essere, inattingibile e inarrivabile, a cui non riuscirà mai veramente a ridursi e ad annullarsi, perché la vita lo coinvolgerà sempre nel vortice dei desideri, delle paure e delle viltà, per quanto lui faccia di tutto per starne lontano.
La libertà è nel nulla,
pensa Enrico, giacché
ogni volere distrugge il vero essere e bisogna liberarsi dalla
vana fede nell’io.
La morte uccide solo questa fede, che è nulla, e non va temuta.
Si potrebbe spiegare la vicenda umana di Enrico partendo dalla concezione della vita di Carlo Michelstaedter: la volontà di vivere è desiderio che sempre si rinnova e che non trova mai un appagamento definitivo, perché è destinata per natura a rinnovarsi ciclicamente. È questa “Voluntas” alla base dell’infelicità dell’uomo ed essa andrebbe ridotta, neutralizzata, ma ciò è praticamente impossibile. Partito da questo presupposto, Enrico, soprattutto dopo il suicidio assurdo di Carlo, cerca l’ascesi, la fuga, il ritiro.
Il romanzo, in aggiunta all’aspetto narrativo, ha qualcosa di saggistico, ma non è certo un esempio di «ermafroditismo letterario», come pretendeva Stefano Giovanardi nella sua aspra critica, ovvero né romanzo, né saggio, e i problemi che contano sono altri. Viene soprattutto da chiedersi se Magris non abbia voluto proporre qui un po’ didascalicamente una sorta di triplice “superamento”: quello di Leopardi, quando la voce narrante afferma che il protagonista, da solo al cospetto della luna silenziosa nei deserti della Patagonia, non ha bisogno di farle domande, al contrario del pastore errante dell’Asia (le domande sul senso della vita sono implicite e non trovano risposta); quello della Storia e della stessa politica, se pensiamo all’estraneità, al senso di distacco di Enrico nei confronti della bufera che infuria intorno a lui, con la seconda guerra mondiale, i lager nazisti e le foibe titine; quello della stessa carità cristiana, imperniata nella figura di Tolstoj, a cui Enrico preferisce il ruvido Schopenhauer. È possibile che l’autore proponga non il rifiuto, ma la necessità di un ripensamento di questi valori, dalla poesia all’impegno nella Storia, in vista di una sua personale risposta al nichilismo novecentesco. C’è infatti un saldo legame tra le concezioni di Michelstaedter, che Enrico vorrebbe realizzare, e la Storia:
ecco, quel Reich millenario è la prova che la rettorica è morte
e distruzione;
e ancora,
eroi e vittorie sono solo manfrine.
Non c’è la rassegnazione nel messaggio di Magris, ma la coraggiosa presa di coscienza della «persuasione» di cui ci parla Michelstaedter, cioè di una disillusione che svela le menzogne e la follia del mondo, il cui disprezzo per l’uomo ricade sulla testa come uno sputo in aria.
Lo stesso privato e l’interiorità dei personaggi non sfuggono all’attenzione dell’autore. Si pensi al legame tra Paula, sorella di Carlo, ed Enrico, e alla scena in cui s’incontrano, ormai settantenni, senza che tra i due ci sia mai stata una vera relazione amorosa. Paula tira una pigna contro un albero sbagliando la mira e ride:
potesse questo momento non passare mai, quella pigna e quel
riso senza futuro…perché non è accaduto niente e la vita la si è
trascorsa insieme.
È messa in risalto, qui, non la passione amorosa, ma la nostalgia del sentimento d’amore, la quale è sentimento essa stessa. Non è poi un caso che la scena finale sia avvolta in un’atmosfera onirica: nel delirio, Enrico vede la lucerna e gli occhi di Carlo, Paula e le sue ciglia, e il mare che dilaga da ogni parte; il suo corpo sembra dilatarsi fino a riempire la sfera celeste, è un palloncino che scoppia forato da un ago di pino e nessuno ne ode il tenue scoppio… È la vita che prorompe un’ultima volta, affascinante e terribile.
Tra i libri di Magris «Un altro mare» non è certo il più famoso e non è stato apprezzato tanto quanto, per esempio, «Danubio» e «Microcosmi», ma a mio avviso è proprio in questo romanzo breve, denso e compatto, che l’autore è riuscito a fondere felicemente tra di loro vena creativa e riflessione filosofica, e ciò grazie anche allo stile asciutto, quasi epigrammatico, e alla modalità narrativa del racconto, scritto sempre al presente, attualizzato e interamente focalizzato su Enrico, moderno eroe platonico della persuasione.
Rimane da spiegare il titolo. L’altro mare, come disse lo stesso Magris a Giulio Nascimbeni,
è un mare senza sponde, l’Assoluto, spogliato dell’accidentalità
della vita. Mreule è uno che ha ricevuto dall’amico Michelstaedter
la rivelazione di un Assoluto che non può raggiungere, ma senza
il quale non può vivere.
Fonte della foto:
http://mescouleursdutemps.blogspot.ch/2012/01/un-altro-mare.html

[…] via «Un altro mare», quello dell’Assoluto, secondo Claudio Magris. Di Vittorio Panicara […]
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