Calvino e il pensiero balbuziente

di Stefano Brugnolo

In occasione del centenario della nascita di Italo Calvino (15 ottobre 1923), un articolo dedicato a questo scrittore, compagno segreto della nostra contemporaneità.


Non mi piacciono tanto le polarizzazioni, le opposizioni schematiche ma certamente il titolo del saggio di Carla Benedetti, “Pasolini contro Calvino” (1998, Bollati Boringhieri), ha certamente una sua ragion d’essere. E credo che richiamarsi alla loro distanza e differenza abbia ancora senso per capire meglio chi siamo diventati noi “oggi” rispetto a quei due scrittori, ma soprattutto per capire che tipo di habitus mentale possiamo adottare (ispirandoci o distinguendoci da “quei due”) per orientarci nel mondo contemporaneo.

Dirò poco di Pasolini, ma è certo che lui voleva o comunque provava a conoscere il mondo dall’interno, coinvolgendosi in esso, amandolo, odiandolo appassionatamente, visceralmente. Oggi quel modo pasoliniano di rapportarsi al mondo continua ad affascinare molti e non credo che il centenario della nascita di Calvino susciterà così tante iniziative come quello di Pasolini. Ora, a rendere difficile un amore spontaneo per Calvino sono due ragioni: la prima è che Calvino, scrittore programmaticamente anti-romantico, ha sempre raccontato il mondo ponendosi ad una certa distanza da esso. La seconda è che Calvino aveva la “capacità” (che nel tempo risulta sempre più irritante ma anche stimolante) di NON capire il mondo, di mostrarsi perplesso davanti a esso.

Quel che io mi chiedo è se questa sua capacità o incapacità non sia una virtù invece che un limite. Basta guardarsi intorno e ci si accorgerà che sono tantissimi coloro che propongono spiegazioni e soluzioni delle nostre tantissime crisi e mi chiedo se non abbiamo urgente bisogno di scrittori, intellettuali, pensatori che sappiano sopportare di “non” capire il mondo in cui viviamo, che sappiano cioè astenersi o posticipare conclusioni o spiegazioni definitive su di esso. Calvino era senz’altro uno di essi, uno dei pochissimi.

Voglio subito dire che questi aspetti caratterizzano l’opera di quello scrittore fin da subito, fin da “Il sentiero dei nidi di ragno” del 1947, e dunque anche nel tempo in cui fu politicamente e culturalmente impegnato e schierato. Calvino scrisse sì allora un romanzo sulla Resistenza e dalla parte di quel movimento, ma fece anche subito una scelta radicale e secondo me felice, scelse  di mettere della distanza tra sé e quella realtà drammatica, decidendo di adottare come punto di vista quello di un bambino, il protagonista: Pin.

Calvino adotta cioè un punto di vista dal basso, il punto di vista di qualcuno che essendo inesperto non capisce cosa spinga gli adulti a combattersi e uccidersi. Ora, il procedimento del punto di vista dal basso è stata un’invenzione tardiva nella storia della letteratura. È stato Rousseau il primo a adoperarlo nelle sue “Confessioni”; allorché raccontò i suoi primi anni non assunse infatti il punto di vista retrospettivo del vecchio verso il bambino, ma appunto tentò di ricostruire e restituire con immediatezza la visione del mondo che fu propria del secondo. Quello di Rousseau è in fondo uno dei tanti esempi di “sguardo straniante” sul mondo che ha caratterizzato gli illuministi per i quali era importante rappresentare come strana una realtà che tutti o molti trovavano normale, dandola così per scontata, evitando di interrogarsi su di essa.

Da allora in poi il procedimento che ispira la scrittura di quel tardo illuminista che fu Calvino è sempre stato la distanza verso gli eventi raccontati, e dunque il desiderio di non farsene coinvolgere troppo. Che questo procedimento, ma si direbbe anche visione del mondo, ispirata a diffidenza nei confronti di ogni coinvolgimento troppo appassionato, si affermi per la prima volta in un romanzo che racconta un episodio di coinvolgimento collettivo quale la Resistenza è un paradosso che testimonia ulteriormente dell’originalità di quel romanzo e dello scrittore in genere.

Fino alla fine del romanzo Pin manterrà la sua incomprensione, diffidenza, curiosità verso il mondo violento degli adulti intorno a lui. Si prenda una espressione all’inizio del romanzo: «In tutti gli esseri umani per Pin c’è qualcosa di schifoso come in vermi e qualcosa di buono e caldo che attira la compagnia»; e alla fine sempre Pin penserà: «a vederle da vicino, le lucciole, – dice Pin, – sono bestie schifose anche loro, rossicce. – Sì, – dice il Cugino ma viste così sono belle». Non è solo un limite di Pin quello di provare repulsione e insieme» affezione per gli esseri umani, è davvero qualcosa di intrinseco alla visione illuminista di Calvino, che non scommetteva sulla bontà degli uomini ma era disturbato e contemporaneamente incuriosito dalla loro inaffidabilità e immaturità. È anche e proprio per questo che il suo progressismo non ci respinge a distanza di settant’anni: esso è temperato dal suo scetticismo, da uno scetticismo curioso verso i suoi simili.

Ma adottare il punto di vista di un bambino è importante per Calvino perché appunto un “bambino non capisce”: vede gli adulti che combattono una guerra spietata ma gli sfuggono le ragioni di quelle loro azioni. Come già dicevo, per Calvino è importante non capire, o meglio: assumere davanti alla realtà una attitudine stupita, perplessa, problematica. Non è che Calvino si accontenti di questa incomprensione, quella è solo un punto di partenza, ma non esiste per lui nessuna conoscenza e direi “presa” sul mondo che non parta da lì, che prenda spunto da una radicale perplessità davanti alla complessità, se non anche al disordine del mondo.

Si può dire che Calvino nei suoi romanzi mette in scena una tensione tra due valori opposti: da una parte c’è l’ordine (nelle sue varie accezioni) e dall’altra il disordine (nelle sue varie accezioni). L’ordine negli anni tra il ’45 e il ’56 è anche e soprattutto l’ordine possibile, futuro, garantito da una teoria o da una ideologia che provano a dare ragione della confusione della vita, della società; che vorrebbero appunto ri-ordinarla.

Ci si poteva aspettare che lui avrebbe raccontato la guerra partigiana proprio come un tentativo di rimettere ordine (un ordine nuovo, avrebbe detto Gramsci) nel mondo. In parte è così ma la cosa interessante è che però Calvino ci racconta la guerra partigiana (anche) come qualcosa di disordinato, qualcosa che non corrisponde mai del tutto a degli schemi morali e ideologici precostituiti. Va da sé che lo scrittore è dalla parte della Libertà, della Democrazia, ma sceglie di rappresentare una banda partigiana piuttosto sbandata, una banda di sbandati. E ad un certo punto fa dire a Kim, un capo partigiano che è un po’ il suo alter ego, qualcosa se vogliamo di inquietante; cito: «lo spirito dei nostri …e quello della brigata nera» «sono la stessa cosa […] la stessa cosa […] la stessa cosa e insieme tutto il contrario». Insomma, Calvino invece di presentarci una immagine manichea della guerra civile, ci suggerisce che tra i combattenti esistevano tante analogie.

Italo Calvino a Oslo, 1962

E poi Kim continua dicendo: «basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’animo, e ci si trova dall’altra parte, come Pelle, dalla brigata nera, a sparare con lo stesso furore , con lo stesso odio, contro gli uni e contro gli altri, fa lo stesso». È un colpo d’occhio impressionante dentro il vortice o il gorgo di quello che potremmo chiamare la coscienza o l’incoscienza popolare. È per far questo che Calvino si rifiuta di mettere al centro del suo romanzo partigiani troppo consapevoli della loro missione, e si dedica invece alla rappresentazione di «quegli altri», dei componenti del distaccamento del Diritto: «ladruncoli, carabinieri, militi, borsaneristi, girovaghi». E cioè di un popolo ancora ineducato alla politica e chissà forse ineducabile.

Certo, a quell’altezza della sua vita Calvino crede ancora che dalla confusione possa scaturire un ordine, un senso, una armonia. Nel tempo ci crederà sempre di meno, ma non cesserà di essere un razionalista, un illuminista che prova a misurarsi con il disordine del mondo, essendone insieme attratto e respinto, tanto che si può dire che la ricerca di Calvino sarà sempre la stessa: trovare una giusta distanza grazie a cui osservare la realtà circostante, descriverla, comprenderla. Si pensi qui al “Barone rampante” che dà il titolo al suo romanzo migliore (1957) che sceglie appunto di allontanarsi dai suoi contemporanei salendo sugli alberi, ma che lo fa per provare a capirli meglio. Insomma, per Calvino possiamo conoscere il mondo se ci poniamo ad una qualche distanza dal mondo: mai troppo vicino mai troppo lontano.

Ora, mano a mano che il mondo cambiava Calvino ha continuato a interrogarsi su quella realtà e sulla possibilità (impossibilità) di darne conto. E così mentre Pasolini si perdeva dentro una realtà che sempre più lo deludeva ma che provava  a capire e spiegare in termini di irreversibile mutazione antropologica, ecco che Calvino assume una posizione “stoica”, sceglief

di non indignarsi ma mette in scena la sua perplessità o se si preferisce la sua “balbuzie”.

La parola è dello stesso Calvino che presentando i saggi e gli articoli che vanno sotto il titolo di “Una pietra sopra” (1980) scrive: 

«Le pagine di riflessione [che qui presento] non riesco mai a vederle come definitive e staccate da me: partecipano della natura fluida del discorso parlato, sono sottoposte alla perplessità del ragionamento, alla sospensione del giudizio, e quasi direi agli accidenti fonetici dell’espressione vocale. Anche quando mi lancio nelle enunciazioni più perentorie, sento che resta nel fondo una certa balbuzie interiore» 

Questa balbuzie si riflette in molti suoi testi e si caratterizza come un continuo sforzo di aggiustamento o di correzione del tiro cognitivo. Siamo sempre dalle parti di quel tentativo di dare un ordine (almeno sul piano epistemologico) al mondo, tentativo che però va sempre a finire in un fallimento. Dove però per “fallimento” intendo la constatazione a cui sempre approda lo scrittore dell’impossibilità di giungere ad una “quadratura del cerchio”: la realtà sfugge sempre.

Ma non perciò non vale la pena inseguirla (come non richiamarsi qui agli ariosteschi inseguimenti di Angelica da parte di Orlando, da Calvino tanto amati, e riproposti sotto forma degli inseguimenti di Bradamante da parte di Astolfo nel “Cavaliere inesistente” del 1959). Tutto ciò si vede soprattutto in “Palomar” (1983). I testi brevi che costituiscono quel libro sono tutti degli esperimenti di pensiero che mettono in scena questo reiterato tentativo di catturare con le parole una realtà mutevole e sorprendente; una realtà spesso deludente ma anche interessante proprio perché renitente, spiegazione a ogni spiegazione.  

Si prenda il brano intitolato “Lettura di un’onda” in cui il signor Palomar, più che mai un alter ego dello scrittore, prova appunto a leggere la realtà sommamente cangiante di una singola onda marina: «il signor Palomar intende semplicemente vedere un’onda, cioè cogliere tutte le sue componenti simultanee senza trascurarne nessuna».

Ora il progetto è tutt’altro che “semplice” è anzi enorme, impossibile da realizzare. D’altra parte, l’onda non sta propriamente per l’onda fisicamente intesa ma per la realtà sociale, umana, culturale con cui Calvino si confrontava allora e noi ci confrontiamo oggi. La realtà è infatti fatta di onde che ci investono e qualche volta rischiano di sommergerci. Sappiamo che non possiamo descriverle compiutamente, dettagliatamente, ma ciò non significa che non possiamo e dobbiamo provarci.

Come è prevedibile alla fine l’onda non sarà catturata dalle frasi di Calvino, perché nessuna onda potrà mai essere catturata con le parole, proprio come in definitiva non può essere catturata (spiegata) una volta per tutte la realtà sociale, storica, umana nella quale viviamo immersi. Il tentativo di Calvino è destinato in partenza al fallimento, eppure da un altro punto di vista questo e altri suoi testi si costituiscono come delle notevoli “riuscite”. Questo come altri esercizi di stile calviniano ci addestrano, infatti,  a fare un uso più vivace, meno grossolano delle parole; un uso più icastico di esse e mi verrebbe da dire anche “più sportivo”, più agonistico.

Siamo in fondo sempre dalle parti della lotta calviniana contro l’antilingua, contro quella lingua facile, generica di cui spesso ci accontentiamo per darci conto della nostra realtà esteriore e interiore.  In quel suo articolo del 1965 si legge:

«Chi parla l’antilingua ha sempre paura di mostrare familiarità e interesse per le cose di cui parla … La motivazione psicologica dell’antilingua è la mancanza d’un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l’odio per se stessi. La lingua invece vive solo d’un rapporto con la vita che diventa comunicazione, d’una pienezza esistenziale che diventa espressione. Perciò dove trionfa l’antilingua –l’italiano di chi non sa dire ho «fatto», ma deve dire «ho effettuato» – la lingua viene uccisa».

E io aggiungo: viene uccisa la lingua ma viene soprattutto menomato il nostro rapporto con la realtà, sia con la realtà personale, interiore, che con quella collettiva, comune. Sì Calvino da quello stilista che era lavorava moltissimo sulle parole, ma non era certo per ragioni puramente formali, retoriche, secondo una ben collaudata tradizione italica, ma proprio per cercare di trovare ogni volta la parola giusta, le mot juste. Se dunque è vero che più il tempo passava e più la realtà gli appariva difficile da afferrare e dire, non perciò ha mai rinunciato a provarci.

Si consideri per esempio una delle figure più cospicue del suo stile che verso la fine era diventata strabordante e a volte perfino proliferante: la correzione o correctio che dir si voglia. Calvino non faceva altro che correggere quanto aveva appena scritto e pensato la prima volta, e nei suoi scritti ci mostrava, direi quasi che esibiva il movimento “balbuziente” di questa sua perpetua autocorrezione. 

Se dunque nell’anno del centenario ci poniamo la domanda: perché vale la pena leggere Calvino ancora e soprattutto “oggi”, potremmo anche risponderci così: «Perché Calvino ti insegna proprio questo: il piacere oltre che l’utilità di considerare uno stesso oggetto mentale, un qualunque fenomeno o problema intellettuale, morale, scientifico da molteplici prospettive». E se magari alla fine ci dirà che lui non ha mica capito come funziona davvero quell’oggetto o come si può fare per farlo funzionare meglio o aggiustarlo, tuttavia l’esame, lo scrutinio linguistico e di pensiero a cui l’ha sottoposto non risulta certo inutile, gratuito, fine a se stesso.
Concludendo direi che Italo Calvino è stato uno dei pochi intellettuali italiani capaci di coltivare quella che il poeta Keats chiamava la negative capability, la capacità negativa, e cioè la capacità di dubitare, problematizzare, fare ipotesi, contraddirsi, correggersi, pensare contro se stesso, ecc. ecc. 

Lo fu fino al punto di giocare al gioco di “imparare ad essere morto” come si legge nel testo che chiude le meditazioni di Palomar: «Il signor Palomar decide che d’ora in poi farà come se fosse morto per vedere come va il mondo senza di lui».

Siamo talmente presi dalla smania di essere aggiornati, informati dell’attualità, di essere all’altezza dei  nostri tempi, di essere up to date ecc., che questi e altri esercizi calviniani non potranno che risultarci benefici.

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