«Amore e disamore», «Elogio della menzogna», volumi secondo e terzo de «Il declino degli dèi».

Del romanzo storico di Gerardo Passannante «Il declino degli dèi» sono stati pubblicati finora i primi tre volumi. Dopo la silloge di alcuni contributi critici che hanno accompagnato l’uscita del primo volume, «Avvisaglie d’uragano», proponiamo una compilazione del tutto simile di estratti da prefazioni, commenti ecc. riguardanti sia il secondo volume, «Amore e disamore», che il terzo, «Elogio della menzogna» (editi entrambi da Città del Sole rispettivamente nel 2015 e nel 2017).

Per chi voglia saperne di più:

https://frammentiriflessi.wordpress.com/prosa/tomo-ii/

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Il declino degli dèi - Amore e disamore
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Il secondo romanzo del ciclo “Il declino degli dèi” di Gerardo Passannante è un’opera bellissima, che consiglierei a qualunque amico di non perdere l’occasione di leggere. Ma la sua importanza per me che non sono solo lettore ma anche romanziere di storia, è data dal confermarmi quale sia la vera ispirazione dei  romanzieri storici degni di questo nome: l’urgenza poetica e morale di scrivere la versione di Abele, il vinto, contro quella di Caino, il vincitore. La Storia viene infatti sempre scritta dai vincitori e noi sappiamo le cose del passato solo attraverso la loro penna che salva soltanto una parte della verità, tacendone un’altra. Ai romanzieri di rango, agli scrittori di stato e di statuto, come è Passannante, di cui la critica italiana (ma esiste ancora?) è colpevolmente in ritardo a riconoscere il valore, resta la pietas di frugare con rabdomantica sensibilità e quasi visionario furore, una verità dei vinti, altrimenti  perduta per sempre. Compito non da poco. Con operazione non molto diversa la Yourcenar salvò in “Memorie di Adriano” l’imperatore vittima a lungo dell’omofobia del cristianesimo vittorioso. Ed alla stessa aura appartengono “Salambò” di Flaubert e “Spartacus” di Howard Fast. Diocleziano nel romanzo di Passannante è il grande perdente, l’imperatore storiograficamente crocifisso dall’odio per le persecuzioni anticristiane da lui concepite come estrema difesa dell’Impero che si sentiva chiamato a salvare, a causa del solvente distruttivo delle basi dello stato romano che quella religione possedeva. Molti secoli dopo gli darà ragione un genio che conosceva la classicità come pochi, Nietzsche. Passannante salva Diocleziano con una rappresentazione storica ispirata alla necessità di rivisitare una delle figure più affascinanti e meno capite della lunga storia di Roma, l’imperatore Giuliano, suo compagno di sconfitta famoso per l’appellativo di “apostata” perfidamente inflittogli dai vescovi cristiani, i vincitori. Passannante si deve essere reso conto, nel suo attento studio delle fonti storiche, soprattutto di Edward Gibbon e Eberhard Horst, che proporsi di scrivere di Giuliano lo impegnava ad ampliare il suo sguardo e a  inoltrarsi nella serie di predecessori che ne avevano segnato la via, così breve e così eroica. (…)

Se al lettore accadrà quanto successo a me,correrà per quelle queste pagine divorate col timore di finirle e di abbandonare la compagnia di Prisca e Valeria, moglie e figlia di Diocleziano, di Aurelio, il tribuno mancato sposo di Valeria, i vescovi Luciano e Paolo di Samosata, il filosofo neoplatonico Giamblico, gli imperatori Massimiano e Diocleziano con Galerio, il fantasma di Zenobia, mitica regina di Palmira, quella Palmira che l’orrore di Isis riporta sugli schermi per lo scempio dei suoi meravigliosi monumenti …

La suggestione di questa seconda anta di un polittico scandito in altri numerosi volumi non ancora dati alle stampe, nasce dalla rivisitazione del passaggio dall’età classica, col suo retaggio di civiltà inconsumabile, all’età cristiana oggi così periclitante di fronte ai conflitti religiosi ed etnici che ci minacciano. Passannante soffre quella metastasi antica rinnovata dalla “presente e viva”. E noi la soffriamo con lui grazie alla sua penna elegante, raffinata, non immune da un piacere dello Stile alto, che di questi tempi minaccia di vietarlo alla barbarie del cattivo gusto dilagante, dove volgarità ed eccessi coprolalici pretendono di essere il sigillo della modernità, mentre sono solo il rumore del Nulla. La nota però peculiare di “Amore e disamore” è già dichiarata dal titolo. Ed è l’amore, altra corda dell’arte di scrivere di Passannante, di cui conosco un canzoniere d’amore di rara perfezione stilistica, di fattura petrarchesca. Il lettore infatti verrà ammesso al privato più intimo di Diocleziano, sviscerando i processi psicologici di tutte le fasi dell’amore, dall’innamoramento all’oblio, entrando in quella sfera dove solo la Poesia può permettersi di inventare verità eterne, se eterna è la sostanza di cui gli uomini sono fatti, siano essi imperatori o umili cittadini. Nella pagine dedicate alla riflessione sull’amore Passannante ha forse toccato l’acme della sua arte, cedendo la parola al filosofo neoplatonico Giamblico, che illustra all’imperatore la teoria dell’amore platonico fino alla conclusione a Diocleziano più consentanea, quella di poter dire vero ed eterno amore soltanto l’amore che non si consuma nel possesso ma arde di se stesso, nel silenzio dell’anima sola.

Dalla Prefazione di Roberto Pazzi.

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Due i filoni principali del racconto: il primo riguarda la narrazione della campagna militare che Diocleziano condusse dal 289 d. C, per oltre tre anni col fine di controllare gli instabili confini dell’Impero; il secondo riguarda la moglie dell’imperatore Prisca e la figlia Valeria, seguite nella loro conversione al cristianesimo, ormai dilagante in tutto il territorio romano. (…)

Nell’ultima parte del libro si fronteggiano le due figure dei coniugi imperiali. Ciascuno per proprio conto, ma parallelamente, sia Diocleziano sia Prisca si preparano all’inevitabile incontro a cui li costringe la fine della campagna militare e il rientro delle truppe a Nicomedia.

Prisca, che la religione da poco abbracciata ha consolato ma non placato, ripercorre i molti, troppi anni di matrimonio affrontati senza amore. Pesa la subalternità della donna ai desideri dell’uomo, che l’ha indotta a lungo a mentire, ad accettare un’intimità non condivisa, a sperare nelle partenze del coniuge, nella lunghezza delle sue assenze. Mette in dubbio lo stesso innamoramento, forse determinato dalla posizione del promettente soldato, arriva a pensare che il suo stesso desiderio di piacere per ottenere affetto l’abbia guidata a esser proprio come l’altro la voleva, ma conclude con la comprensione che l’amore a cui aspirava era di tipo ideale, di una purezza che il concreto Diocleziano non poteva offrire. Riversato questo bisogno di assoluto sulla figlia, aveva sempre più ridimensionato il sentimento verso il marito e ora non sentiva altro che stima. Avrebbe potuto amarlo come un fratello, come un padre, ma non era questo che accettava Diocleziano. Al di là del rispetto nei suoi confronti che il marito ha sempre dimostrato, Prisca sa che Diocleziano può legittimamente reclamare i suoi diritti coniugali, sa che può ripudiarla, non conosce invece quali reazioni potrà avere nell’apprendere che lei e per di più anche Valeria si sono convertite. Oltre al tremore per tutta questa incertezza, Prisca percepisce però anche un nuovo coraggio che la fede le dà ed è così che si prepara a incontrare lo sposo. Anche Diocleziano, ormai sulla strada di casa, si abbandona al pensiero di Prisca e a quello dell’organizzazione da darsi per limitare a entrambi il disagio della convivenza. Cerca di fare confronti tra la sua persona, che può vantare tanti successi e quella insignificante di lei, cerca di ripetersi che è stato lui ad ammantarla di virtù inesistenti, ricorda la freddezza, i puntigli, i rifiuti giunti proprio nel momento in cui, diventato imperatore, più si sarebbe aspettato di ricevere calore e gioia. Lo soccorre la consapevolezza di poter sancire il distacco della moglie relegandola in un’ala del palazzo lontana dalla sua stanza, di poterla in seguito ripudiare, pur assicurandole una vita dignitosa, di potersi dedicare totalmente al suo lavoro. Cerca di dirsi, facendo suo quanto ascoltato da Giamblico, che conserverà nel suo pensiero “l’altra” Prisca, quella della dolcezza della tenerezza, della grazia, e che sarà appunto lei ad accompagnarlo «tra i trionfi e gli errori del suo transito terreno, fedelmente, per sempre, fino a calargli le palpebre degli occhi nel giorno in cui avrebbero scorto per l’ultima volta la luce».

Dopo averci mostrato diverse declinazioni di Eros e Thanatos, è con questo senso di morte che si chiude Amore e Disamore, un volume così ricco, culturalmente e psicologicamente, da rendere difficile effettuare i tagli, pur necessari a una recensione.

Da «La crisi esistenziale dell’uomo e la crisi politica dello Stato» di Stefania Ciavattini,  bottegascriptamanent.it, anno XI, n. 119, agosto 2017 (http://www.bottegascriptamanent.it/?modulo=Articolo&id=2142&idedizione=132)

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Passannante riesce a sintetizzare il rigore della rievocazione storica con la suspense dell’intreccio romanzesco, sperimentando un impasto lessicale che, da una parte, rispecchia il pensiero di personaggi cronologicamente assai lontani da noi, e dall’altra ne attualizza l’espressione attraverso una accurata mediazione linguistica. Messa in disparte ogni obsolescenza accademica, l’autore forgia un flusso di dialoghi e di riflessioni che illuminano le nicchie meno conosciute di uno dei periodi cruciali della storia umana, il trapasso dall’antichità classica greca e romana al Medio Evo europeo e cristiano. I quattro tetrarchi, ciascuno con la propria specifica identità, si dibattono in questo travaglio come gli interpreti di una tragedia elisabettiana. Diocleziano incarna una sorta di Re Lear destinato a veder fallire il suo sogno di coesione dell’Impero in un’orgia di anarchia e di sangue che risucchierà anche i suoi affetti più cari. Massimiano è una caricatura di Tito Andronico, sadico e allupato quanto incapace di una qualsiasi visione politica futura, e infatti finirà miseramente. Galerio anticipa per molti versi il turpe e calcolatore Riccardo III, approdato al potere attraverso la menzogna, l’omicidio e il tradimento, ma non morirà sul campo di battaglia, sarà consumato dai vermi di una repellente malattia. Costanzo, infine, appare come una specie di Amleto in preda a dubbi e incertezze, ma sostanzialmente conformista: la morte prematura gli impedirà di diventare un tiranno, e il testimone passerà al figlio Costantino. Passannante immerge il suo scenario narrativo in una luce crepuscolare, malata, e cala il sipario su una premonizione dei futuri sviluppi della crisi: «malgrado ogni precauzione, già albeggiavano le crepe che, favorite dalla successiva frantumazione delle province e di tutti i settori dell’amministrazione, avrebbero portato al tracollo dell’universo unitario, fino alla scissione dell’Oriente dall’Occidente.  (…)

Dalla presentazione di Guglielmo Colombero al Salone del libro di Torino 2017: «Gli ultimi sussulti disperati di un impero agonizzante alle soglie del Medio Evo». (https://frammentiriflessi.wordpress.com/articoli-e-interviste/)

 

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La cultura storica viene lungamente rielaborata dall’autore e quando si esprime nel racconto ci immerge immediatamente nel contesto del tempo e  nell’ anima dei personaggi. Un linguaggio alto e raffinato, ma assolutamente non “elitario”, un linguaggio classico al di là delle molte parole nuove utilizzate, denso e mai sovrabbondante. L’espressione fluida e orecchiabile sembra sorretta da una qualche forma di metrica e, forse, l’esperienza poetica dell’Autore non è estranea alla sua riuscita. Questo equilibrio rende la scrittura perfettamente aderente ai grandi temi che tratta, che sono poi quelli in cui l’uomo si dibatte fin dalla sua comparsa terrena, ma anche assolutamente in grado di farsi leggera e ironica come nella digressione sul Diavolo. Questo tratto del libro è di estrema piacevolezza: lo scrittore sembra ammiccare a chi legge, presentando le varie trasformazioni subite da Lucifero, “il portatore di luce”, i cui tratti positivi vengono via annullati da  chi deteneva il potere religioso. (…)

L’Autore, in una delle digressioni che interrompono il racconto, ma che pure ne costituiscono parte integrante perché ci danno importanti chiavi di lettura dei personaggi  e dell’umanità, aveva già messo in luce come la religione e l’arte fossero creazioni dell’uomo, nel suo tentativo di continuare in qualche modo la propria vita dopo la morte. Diocleziano affida tutto se stesso alla “ religione “ dell’impero, quasi potesse, ancora in vita, stabilire per sempre lo strumento organizzativo in grado di renderlo eterno. E’ il male della mente, odierna versione del vecchio diavolo di cui al capitoletto già citato, che incombe su Diocleziano e ne detta, da questo momento, sempre più le azioni.

Il frequente rimando a grandi autori del passato, tra tutti Tolstoj, e a fatti storici diversi eppure simili, come il nazismo e il conseguente olocausto, ci riporta continuamente all’evidenza che, artisticamente, sotto i personaggi che via via incontriamo, c’è l’uomo, ci siamo noi nella nostra perdurante limitatezza.

L’altra importante digressione riguarda appunto questo aspetto.

Nell’Encomium mendacii si comprende come per menzogna l’Autore non si riferisca a singole coscienti bugie, ma ad una condizione più generale, a quella “penuria di assoluto” in cui avevamo visto già deperire l’idea di un amore persistente, alle molte maschere che indossiamo nella vita di relazione finendo “con l’assumerle come una seconda pelle, la più autentica “ e attraverso le quali “così perfettamente allineati al passo con il ritmo dell’esteriorità e dell’apparenza, riprendiamo il commercio umano con legittima ipocrisia, altrimenti detto, con legittima menzogna “.

Eppure la vita non potrebbe procedere altrimenti, i politici non potrebbero governare, gli scienziati non potrebbero portare avanti le loro scoperte, spesso poggianti su assunti convenzionali, gli storici non potrebbero ricostruire il passato, cosa che fanno poggiando su una scelta di fonti spesso interessata alla convalida di personali ipotesi.

Perdere la consapevolezza dei nostri limiti non può che portare a progetti folli e tale si rivelerà quello di Diocleziano.

Da «Un’accurata analisi della figura dell’imperatore Diocleziano in un gioco di affetti e politica», di Stefania Ciavattini   (http://www.bottegaeditoriale.it/larecensione.asp?id=150)

 

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Breve informazione sugli autori/sulle autrici degli articoli.

Roberto Pazzi: noto scrittore di romanzi e raccolte poetiche, è giornalista e docente universitario a Ferrara.

Guglielmo Colombero: esperto di letteratura e critica cinematografica, è scrittore e opera nel mondo dell’editoria e della comunicazione.

Stefania Ciavattini: è pedagogista e si occupa di recensioni letterarie.

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