Il cammino del praticante buddista verso la perfezione conduce alla fine del percorso all’illuminazione solo quando le norme dell’Ottuplice Sentiero siano state interiorizzate e l’adesione a esse non costituisca per lui più uno sforzo. (Nella prima parte della recensione abbiamo visto i particolari di questo processo.)
Vivendo in comunità, inoltre, egli si è potuto rendere conto a poco a poco di essere stato lui stesso una comunità ancora prima di entrarvi: non è più “individuo”, perché non lo è mai stato… Ma questo deve essere spiegato.
LA REALTÀ IN QUANTO ANATTA E L’ILLUMINAZIONE
Anche se questo può essere sconcertante per il pensiero comune, si può parlare del singolo praticante (e dell’uomo in generale) come di un “dividuo”, cioè come di qualcosa di simile a «un luogo di passaggio di infinite rette» (Pasqualotto, p.32). E ciò va attribuito a ogni realtà e in modo radicale: è la fondamentale teoria dell’anatta, così estrema da rappresentare una rivoluzione concettuale accettabile solo con la rinuncia a pensare il “se stesso” separato dagli “altri” e solo mettendo in crisi lo stesso concetto di identità personale. Non solo, ma ogni ente non è un’unità indivisibile ma una molteplicità complessa, e la realtà, come vedremo tra poco, è in sé priva di permanenza e di sostanzialità.
È bene ribadire che tutta l’etica buddista si fonda su questa nozione di realtà (a cui dedicherò quasi per intero questo intervento) e solo in essa, come si vedrà alla fine dell’esposizione, trova il suo senso profondo. La concezione dell’anatta è la premessa teorica indispensabile per concepire l’accesso a quel livello superiore di verità che solo permette di essere degli illuminati (bodhisattva), cioè dei veri buddha.
Come già visto, l’insegnamento buddista predica l’attività in comune, la meditazione, l’attenzione, la liberazione dall’attaccamento ai beni materiali, dall’avversione e dall’illusione (il velo di Maya), finché la concentrazione conduce il praticante, ormai “dissolto” nella comunità, oltre il ciclo delle esistenze (samsara) e alla liberazione da ogni contingenza (nirvana): solo a questo punto può aver luogo l’illuminazione, ma i bodhisattva sono rari, perché il percorso è lungo e solo pochi prendono coscienza piena dell’anatta. Ma occorre sottolineare che anche la maggioranza dei praticanti, che arriva soltanto a un primo livello di verità mediante la meditazione, deve comprendere la teoria buddista dell’anatta, che nelle prossime righe vedremo più da vicino.
IL «MODELLO A RETE»: LA TEORIA DEGLI AGGREGATI E IL SÉ
Non esiste scelta ascetica che non rifiuti il sistema di valori della società in nome di ideali alternativi, come, per esempio, la compassione o l’aiuto reciproco. Il buddismo, però, aggiunge a tutto ciò un’altra visione del mondo e della vita, mettendo in discussione non solo la morale comune, ma anche ciò che agli altri pare scontato nella conoscenza e nella rappresentazione della realtà. La chiave di volta di questo ribaltamento è il cosiddetto “modello a rete”, che fa perno a sua volta su due teorie, quella “degli aggregati” (Khandha) e quella della coproduzione condizionata (paticcasamuppada).
In base alla prima il “sé”, il “soggetto”, non è visto più come un’unità chiusa, ben definita da confini netti con l’esterno, ma come un’entità complessa, articolata e polivalente, costituita da cinque aggregati strettamente correlati fra loro, nel senso che ognuno di essi è in relazione con gli altri e li implica reciprocamente. Eccoli:
- L’aggregato delle forme sensibili derivanti dai sensi e relative ai quattro elementi naturali (terra, fuoco, aria, acqua).
- L’aggregato delle sensazioni, nate dal contatto tra gli organi di senso e le forme sensibili.
- L’aggregato delle percezioni (una sorta di “consapevolezza” delle sensazioni).
- L’aggregato dei condizionamenti, che sono i fattori delle attività vitali.
- L’aggregato della coscienza, che conosce i nessi che la legano agli aggregati precedenti e che legano tutti gli aggregati fra loro.
Se questi cinque livelli di aggregati non sembrano discostarsi troppo dalle teorie gnoseologiche più comuni del pensiero occidentale, è proprio la tipologia di “aggregato” a costituire la novità, vale a dire i cinque Khandha. Se si prende l’esempio della vista, ci si trova di fronte a una conseguenza notevole: essendo interrelati i tipi di aggregato fra loro e non solo le loro componenti, allora l’oggetto visto dipende per la sua esistenza dalla vista e, viceversa, la vista dall’oggetto visto. Nemmeno la coscienza sfugge a questa legge, nel senso che essa non potrebbe esistere se non ci fossero gli altri Khandha; la coscienza non ha un’esistenza autonoma. Essere e pensiero esistono soltanto in una condizione di relazione reciproca, l’uno, per così dire, in funzione dell’altro; il buddismo non prevede un loro dualismo (problema che, come si sa, ha segnato tutto il pensiero occidentale, per lo meno da Cartesio in poi). La coscienza risulta volta per volta diversa a seconda degli oggetti a cui si riferisce, non è mai “pura”, non è mai isolata (una semplice atta), ma si dà sempre come coscienza-di. Non è sostanziale e non è permanente, al pari di tutta la realtà (anatta: “insostanziale”; anicca: “impermanenza”), che dunque altro non è se non una rete di relazioni e non un sistema di sostanze (neppure qui è ammesso il dualismo, nella fattispecie quello tra sostanza e accidente, come in Aristotele). Ogni elemento della realtà appartiene a una serie infinita di relazioni ed è un momento di una catena infinita di trasformazioni. Ogni cosa è intrinsecamente costituita da altre cose, non è mai assoluta; è «un termine di una relazione che non esiste prima, dopo o indipendentemente dalla relazione stessa» (Pasqualotto, pp.47-48).
Se la realtà è soltanto una rete di relazioni, ciò vale anche per il “Sé”, in sanscrito Atman. Questo può essere tre cose: Spirito assoluto, cioè Sé universale (Brahman secondo la tradizione Vedica e Vedanta; il Grande Sé per il buddismo); il sé particolare, cioè l’anima individuale, il piccolo Sé, che ha realtà solo in relazione con il Grande Sé; il “sé” inteso come “se stesso”. Per il buddismo quest’ultimo sé riflessivo non può prescindere da ciò che è diverso da sé e deve accorgersi, se vuole esistere, che dipende da ciò che esso non è. Nella filosofia occidentale si può trovare qualcosa di simile in Eraclito, nel «Sofista» di Platone e naturalmente in Hegel. Da notare, infine, come il buddismo non neghi l’esistenza dell’anima individuale, ma la consideri solo realtà insostanziale, un momento transitorio di un ciclo perenne di trasformazioni.
IL «MODELLO A RETE»: LA TEORIA DELLA COPRODUZIONE CONDIZIONATA
Il principio della relazione intrinseca, dunque il modello reticolare, viene a completarsi con un’altra considerazione: ogni realtà è contemporaneamente condizionata e condizionante ed è parte di un tutto organico. È la teoria della coproduzione condizionata (o genesi interdipendente), che viene così sintetizzata dallo stesso Buddha storico:
Quando appare questo, c’è quello; quando appare questo, appare quello; quando questo non c’è, quello non c’è; quando scompare questo, scompare quello. (Majjhima Nikaja)
Esemplare di questa teoria è lo schema dei dodici (nove secondo un’altra tradizione) anelli della Ruota dell’Esistenza (in Samyutta Nikaja), o Ruota del Divenire (bhavacakra in sanscrito), una specie di catena circolare, non lineare, in cui ogni anello è condizionato da quello precedente e condiziona quello seguente. Essa riproduce i meccanismi del Saṃsāra, che possono essere interpretati sia sul piano psicologico che su quello fisico. Essi sono l’ignoranza, le intenzioni e le tendenze, la coscienza, il nome-forma sensibile, i sei sensi, il contatto, la sensazione, la brama, l’attaccamento, il divenire, la nascita, la morte. Entrare nel dettaglio richiederebbe troppo tempo, ma si deve rimarcare come la brama, in tutte le rappresentazioni della Ruota dell’Esistenza, sia la causa maggiore della sofferenza, soprattutto se si associa all’ignoranza, che produce attaccamento, poiché rimane nell’illusione della permanenza delle sostanze. In questo senso è chiaro come la teoria dell’anatta e dell’anicca della realtà permette di sfuggire alle insidie del samsara, cioè al ciclo delle vite, una specie di inferno in terra. Gli oggetti soggettivi e oggettivi, materiali e immateriali, non devono essere desiderati allo scopo di afferrarli e possederli, data la loro inconsistenza – intrinsecamente sono solo relazioni -, se si vuole evitare uno stato di dolore e di infelicità. L’etica buddista, evidentemente, poggia interamente sulla teoria della realtà come entità “reticolare”.

Il modello a rete, così come confermato dal Discorso sulla Ghirlanda del Buddha storico, è stato ampiamente sviluppato nelle scuole buddiste cinesi e giapponesi: ogni elemento della realtà è in sé una scala ridotta ancor prima di entrare a far parte di una rete più generale («elementi consistenti senza ostruzione», traducendo dal giapponese). Si sottolinea così il carattere dinamico della rete, una sorta di intreccio di fili in cui nelle cose s’incontrano materia e forma, l’intero e le sue parti, l’uno e i molti; ogni elemento è “spazio di passaggi”. Nella tradizione mahayanica, parlando delle forme delle cose, il Sutra del cuore mette in primo piano il valore e la funzione del vuoto:
…la forma è vacuità e proprio la vacuità è forma.
Per comprendere la citazione occorre considerare la vacuità come sinonimo di vuoto solo nella sua prima parte, secondo cui ogni forma esiste e si definisce solo in rapporto ad altre forme, e quindi è definita solo da ciò che essa non è (non ha sostanzialità, o consistenza autonoma), cioè dal vuoto propriamente detto. La parte la vacuità è forma fa riferimento invece alla qualità comune di tutte le sue forme, cioè alla sua possibilità – la vacuità – di essere qualsiasi forma.
Gli elementi della realtà, in altre parole, hanno delle “aperture” che rendono dinamica la rete, la quale funziona quindi solo grazie al vuoto e alla vacuità (che, si badi bene, non hanno niente da spartire con il concetto di Nulla). Ciò che è pieno esiste grazie al vuoto proprio perché vive di relazioni.
LIBERTÀ E RESPONSABILITÀ
Anche se la rete in cui consiste la realtà ha un deciso carattere dinamico e non può quindi essere ridotta a mero determinismo, l’io dell’uomo ha solo un’entità reticolare, non ha più un’unità compatta e permanente, e quindi è lecito chiedersi che fine faccia il suo libero arbitrio e come si possa intendere e valutare l’assunzione di responsabilità dell’essere umano. Chi vive in una società ha degli obblighi morali verso se stesso e deve obbedire a norme e a leggi codificate e valide per tutti: com’è possibile a questo punto giudicare i suoi atti?
La soluzione va cercata tenendo presenti i due livelli di verità di cui si è già detto: il primo è superficiale, convenzionale e insufficiente, il secondo è profondo e considera il modello a rete in tutte le sue potenzialità. Il giudizio sull’assunzione di responsabilità pertiene solo al primo livello e rimanda al sistema etico dell’Ottuplice Sentiero; in questo senso, pur non potendo risalire troppo indietro nella catena causale, è possibile giudicare un’azione stabilendo l’eventuale colpa e la sua punibilità. Si aggiunga anche che la società ha il diritto di difendersi e il buddismo, per quanto preferisca la prevenzione, non contesta certo questo diritto.
A un livello superiore di verità, il soggetto deve essere considerato nella sua appartenenza alla realtà reticolare, con tutti i suoi innumerevoli condizionamenti, quelli che lo fanno essere ciò che è e quelli che egli stesso determina. La concatenazione di condizionamenti precedenti l’azione e di effetti successivi è infinita e la responsabilità dell’uomo è anch’essa virtualmente tale. In questo contesto l’azione morale possibile è quella di esercitare la propria libertà cercando di provocare con le proprie azioni, per un numero massimo di condizioni, un numero minimo di conseguenze negative. Ma per arrivare a questo deve abbandonare l’attaccamento all’io e deve farlo in modo equilibrato, evitando sia l’atrofia dell’io (una passività estrema, tipica di chi considera solo il numero infinito di condizionamenti sull’io, un cupio dissolvi), sia l’ipertrofia dell’io, quando si presume di determinare ogni cosa e ogni evento con la propria volontà, trascurando i condizionamenti subiti; l’atrofia dell’io porta al nichilismo, l’ipertrofia all’eternalismo. Inoltre, l’io che sa di essere condizionato da tutto e di essere responsabile di tutto, non fa di questa consapevolezza un titolo di merito o di demerito; la sua moralità consiste nell’agire spontaneamente per il meglio. Un io “in sé”, peraltro, a questo punto non è più una necessità e si trasforma in un io “per altro”. Al livello ultimo di moralità l’io si dissolve e l’azione morale è pura: il problema stesso del Kharman, il sistema di pene e di ricompense, non ha più ragione di sussistere. È questa la condizione dell’illuminazione, o “risveglio”, cioè del buddha.
La teoria buddista della realtà in quanto anatta rende dunque possibile la stessa etica e lo scopo finale dell’insegnamento buddista è ormai raggiunto: l’estinzione del dolore in questa vita e in questo mondo.
BREVE AGGIUNTA
Come detto, la recensione si occupa soltanto della parte teorica del libro di Pasqualotto. I capitoli sulla diffusione del buddismo nel mondo e nella storia sono molto interessanti e meriterebbero una trattazione specifica a parte, magari con qualche aggiornamento, ma l’intento di questa recensione era solo quello di dare un’idea complessiva dei principi generali su cui le varie scuole buddiste concordano, dall’Hinayana (Piccolo Veicolo), alla Mahayana (Grande Veicolo) e Vajrayana (Veicolo del Diamante); in realtà ci sono molte altre questioni dottrinali su cui queste scuole non trovano un accordo e che vengono spiegate da Pasqualotto, ma per questo servirebbe una lunga spiegazione.
Un confronto con la mentalità e con il pensiero filosofico dell’Occidente sarebbe un altro tema da sviluppare, ma una discussione del genere avrebbe bisogno di molto, troppo, spazio testuale, e la si potrebbe rimandare alla parte del blog dedicata ai commenti.
