Alla base della vita che scorre e si rinnova ci sarebbe per Freud il binomio di Amore e Morte, due pulsioni contrapposte:
«Partendo da speculazioni sull’origine della vita e da paralleli biologici, trassi la conclusione che, oltre alla pulsione a conservare la sostanza vivente e a legarla in unità sempre più vaste, dovesse esistere un’altra pulsione a essa opposta, che mirava a dissolvere queste unità e a ricondurle allo stato primordiale inorganico. Dunque, oltre a Eros, una pulsione di morte; la loro azione comune o contrastante avrebbe permesso di spiegare i fenomeni della vita »
Sigmund Freud, «Disagio della civiltà».

Sembra una contraddizione in termini, eppure il buon Sigmund partiva da premesse biologiche e dall’esperienza clinica della psicanalisi, insomma non stava fantasticando. Come i due principi possano convivere nella stessa individualità non è facile da immaginare o da descrivere, visto che l’amore – la libido – rappresenta al meglio la spinta alla vita e la morte, al contrario, ne indica il suo spegnimento, la sua enigmatica fine. Ma non possiamo non pensare all’aggressività e alla carica distruttiva di certi fenomeni che consideriamo “naturali”. Secondo Sigmund Freud i comportamenti sado-masochistici, o di annientamento di altri o di se stessi – la scelta del suicidio, il cupio dissolvi, i momenti in cui la morte viene invocata e desiderata – dimostrano che deve esistere una pulsione opposta a quella libidica, come spinta al ritorno dall’organico all’inorganico, di disfacimento di ciò che è a fondamento della società (la guerra!) e della stessa “cultura” (l’unione e la voglia di stare insieme). La civiltà è per Freud un disagio che scaturisce da questo perenne dissidio.
Non è questa la sede per esaminare questa discussa teoria dell’ultimo Freud, basti qui rendersi conto della parentela tra questi due principi, della loro compresenza nell’animo umano e nelle società di tutti i tempi.
Naturalmente questa concezione non era una novità assoluta, visto che dagli antichi Greci (Eros e Thanatos) ai romantici questo rapporto, o contatto che fosse, era stato palesemente riconosciuto. Si legga come esempio ottocentesco l’inizio di un famoso canto leopardiano:
| AMORE E MORTE |
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Giacomo Leopardi, «Canti».

L’amore sa infondere negli uomini il sentimento di una vita vitale, al di là di ogni intellettualismo, conduce alla fraternità ed è l’immagine di un’eventuale felicità, fino a suscitare lo spavento della bellezza, cioè l’idea della possibile perdita dell’amore stesso. Nello Zibaldone (16 settembre 1823) il poeta afferma che «a chi s’innamora pare impossibile di star mai più senza quel tale oggetto»; le pene che l’amante in questo caso dovrà soffrire lo atterriscono fino a fargli immaginare e desiderare la morte: «Tanto alla morte inclina / d’amor la disciplina. […]» (vv.74-75, «Amore e morte»). Un amore pienamente realizzato è impossibile (come dimostra Leopardi nella teoria del piacere, in un’altra pagina dello Zibaldone), e da questa temibile presa di coscienza nasce, nel finale di «Amore e morte», l’invocazione della bella Morte pietosa.
Eros e Thanatos rivivono dunque nelle riflessioni del padre della psicanalisi e nei versi del poeta di Recanati, a dimostrazione dell’enigmatico mistero che lega l’amore alla morte.
Secondo un aforisma di Oscar Wilde,
Il mistero dell’amore è più grande che il mistero della morte.
Oscar Wilde, «Aforismi».

A parte le stravaganze dell’esteta Wilde, che forse qui vuole solo impressionare il lettore mettendo al primo posto l’amore, il nesso tra i due principi risulta ancora una volta confermato, probabilmente perché rimanda al vero, unico, grande mistero, quello del senso della vita.
