Scrivere e camminare: due attività parallele ne “La passeggiata” di Robert Walser

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   La passeggiata è un racconto dello scrittore svizzero Robert Walser, pubblicato nel 1917 ad opera dell’editore Huber E Co. Nel 1919 fu data alla stampa una versione stilisticamente più accurata del racconto, dalla quale è stata desunta la traduzione italiana del 1976 per Adelphi.

   Il testo racconta in prima persona una passeggiata fatta dallo scrittore dopo aver abbandonato il suo scrittoio sul quale rimuginava inutilmente davanti ad un foglio bianco. Nel percorso intrapreso senza una mèta precisa, Walser si sofferma in vari luoghi, come una libreria, una banca, un negozio alla moda, un’osteria e si imbatte in tanti personaggi tra cui una presunta attrice, una cantante, un sarto e persino un cane. Fin qui niente di particolare senonchè, nel corso della descrizione, si dischiude agli occhi del lettore un mondo fatto di piccole cose, poste in primo piano dallo stesso scrittore che viene assorbito dalla visione di tutto ciò che gli capita sotto lo sguardo. Walser registra l’infinitamente piccolo, i minimi dettagli, tutti i particolari per immortalarli nell’eternità della pagina narrativa.

   L’aria silenziosa, la cara e deliziosa oscurità, la quiete che respirava a pieni polmoni, assaporandone le virtù, sono delle carezze per l’autore che sviluppano un sentimento di comunione con l’universo insieme ad un profondo senso di gratitudine verso il creato. La pace risveglia in Walser emozioni sopite nell’anima commossa, una beatitudine che paragona alla morte.

   Giacere qui discretamente sepolto nella fresca terra silvestre, oh, sarebbe dolce! Sentire e gustare da morto anche la stessa morte! Sì, sarebbe bello avere una tomba nel bosco. Forse potrei udire sopra di me uccelli cantare e gli alberi stormire. Ecco quel che mi auguro. 

Una colonna di raggi di sole cadeva risplendente fra i tronchi delle querce, e la selva mi appariva come una verde e bella tomba. Ma presto ritornai alla vita, alla luce del cielo libero.

   Passeggiare, però, non costituisce soltanto una pratica salutare ma stimola anche la fantasia, necessaria per la composizione di testi, che lo scrittore è chiamato a comporre per vocazione. Procura gioia e consolazione, svago e godimento, poiché offre all’autore numerose occasioni che può rielaborare ai fini letterari.

   A spasso ci devo assolutamente andare, per ravvivarmi e per mantenere il contatto col mondo; se mi mancasse il sentimento del mondo, non potrei più scrivere nemmeno mezza lettera dell’alfabeto, né comporre alcunchè in versi o in prosa. Senza passeggiare sarei morto e da tempo avrei dovuto rinunciare alla mia professione, che amo appassionatamente. Senza passeggiate, senza andare a caccia di notizie, non sarei in grado di stendere il minimo rapporto, né tanto meno un articolo, non parliamo poi di scrivere un racconto. Senza passeggiate non potrei collezionare appunti né osservazioni.

  Appare subito chiaro da queste righe il movente che spinge Walser a scrivere e la scrittura stessa diventa una dimensione che procede parallelamente all’attività del camminare. Tutto il mondo dell’autore svizzero è scandito dai ritmi regolari della passeggiata e della scrittura ; pertanto, finanche i particolari apparentemente meno significativi si scollano dalla realtà per trovare un senso intrinseco e soggettivo nel lirismo dello scrittore. Quello che ad una lettura superficiale sembrerebbe un semplice resoconto, si rivela, in realtà, uno studio attentissimo del mondo. Dunque, penna e movimento vanno di pari passo, scanditi da una temporalità che non rispetta i ritmi consueti bensì si soggettivizza nel tempo dello scrittore. La dimensione temporale è racchiusa nel presente, ossia nell’esatto momento in cui Walser rende conto della sua passeggiata, sedimentando in tal modo il tempo interiore, il tempo dell’io. Il qui e ora è fondamentale nell’ordito narrativo, in cui il passato si dilegua e il futuro perde colore.

   Abbeverarsi alla fonte della bellezza che offre la natura ha un gusto insostituibile per l’autore. Infatti, vivere all’aperto è fonte di prezioso insegnamento; passeggiare favorisce la contemplazione e l’osservazione dell’ambiente circostante, in una fraterna comunanza con la natura così pregnante da farne un’unica essenza con la propria anima. I desideri, i bisogni, le mancanze, devono essere messi da parte per dare spazio all’empatia con tutti gli esseri viventi. E così si accolgono tutti gli incontri inattesi, fossero con una persona o con un albero, creando in tal modo un’atmosfera incantata che genera quiete e favorisce elucubrazioni raffinate e sapienti.

   La descrizione che Walser ci offre della sua passeggiata ha un gusto quasi ascetico, metafisico. La gioia che alberga nel narratore è sempre viva, fanciullesca e resta tale anche quando l’immaginazione decolla e si concretizza in visioni non sempre gioconde. I sensi diventano l’unica guida in questo inno alla bellezza della vita. Una lode, a ben guardare, che riflette un amore per tutto il creato. Un esempio pertinente è costituito dalla gloria all’albero. Così si legge:

   Quest’albero grande e maestoso, che protegge e adorna così meravigliosamente la casa, che l’avviluppa e la veste di così grave, lieto, fiducioso sentimento del luogo e del borgo natìo, un albero come questo, dico, è come una divinità, e mille frustate tocchino al gretto proprietario che osi far scomparire tanto verde e fresco splendore di foglie al solo scopo di soddisfare la sua avarizia, che è quanto più di volgare vi sia al mondo. Imbecilli di tal fatta andrebbero espulsi dalla comunità. In Siberia, nella Terra del Fuoco dovrebbero finire simili deturpatori e demolitori del bello. Ma grazie al cielo vi sono ancora contadini che non hanno perduto ogni sentimento e affetto per le cose dolci e buone.

   Come appare evidente, Walser usa delle parole molto forti nei confronti di chi deturpa e svilisce il bello, rappresentato in questo caso dall’albero, una sorta di divinità da lui venerata. Parole di cui successivamente si scusa con il lettore facendo appello alla necessità di avvalersi della decenza dei comportamenti.

   La decenza c’impone di stare attenti a usare verso di noi la stessa severità che usiamo verso gli altri, a giudicare gli altri con la stessa mitezza che usiamo verso di noi, cosa quest’ultima che, com’è noto, noi facciamo per istinto ad ogni momento.

  In effetti, lo scrittore chiama molto spesso in causa il lettore, chiedendogli pareri, coinvolgendolo direttamente nel racconto, di cui finisce col far parte.

   Walser è stato uno scrittore sui generis, curioso, folle, solitario. Il suo desiderio era quello di restare nell’oblio, inosservato. Fin dall’adolescenza ha vissuto vari lutti familiari ed ha avuto un’esistenza errabonda. Vagò, infatti, per l’Europa, spostandosi continuamente e macinando a piedi una quantità di chilometri inverosimile. Basti pensare che in una occasione, camminò a piedi da Berlino alla sua Bienne, in Svizzera! E’ stato uno scrittore frenetico, segnato da un’instabilità mentale e da un ineccepibile talento letterario. Passeggiare è stata un’attività vitale, disegnando un’architettura dei luoghi non solo fisici ma che tratteggiano una vera e propria topografia in cui, precisamente, si racconta l’uomo. Nelle sue pagine c’è quello che Gianni Celati definisce il sentimento del perdersi. Ed è esattamente quello che succede in lui quando eleva nella pagina narrativa tutto il contenuto della sua vista, sia pure un dettaglio apparentemente insignificante.

   Il destino ha voluto che Walser lasciasse questa terra precisamente in linea con il suo stile, tanto è vero che morì dopo una lunga passeggiata, trovato a terra in un giardino imbiancato dalla neve. Meditazioni sulla morte sono frequenti nelle sue pagine ma nulla poteva preannunciare all’autore un ultimo saluto alla vita così.

   Nel contemplare terra, aria e cielo fui preso da un pensiero conturbante e irreprimibile: ero costretto a dirmi che ero un povero prigioniero tra cielo e terra, che tutti qui siamo ugualmente dei poveri reclusi e che per noi non v’è alcuna via verso un altro mondo, se non quell’unica che ci conduce nella fossa buia, nel grembo della terra, giù nella tomba.

   Nello scrittore svizzero c’è uno struggente tentativo di non smarrire quella sensibilità di preservare un rapporto puro e innocente con l’ambiente circostante. Il percorso di Walser che segna la passeggiata, ha coordinate fisiche ben precise, all’interno delle quali però si srotola l’intreccio di una confessione interiore. Questo tipo di narrazione richiama i modelli dell’immaginario romantico, incarnati in una sottile nostalgia e in una delicata malinconia, come quella nascente al calar della sera che porta ad un lento ma inesorabile abbandono del giorno, metafora questa della vita stessa. E della sua esistenza, Walser ha vissuto ventitrè anni in una clinica psichiatrica e dal momento del suo ricovero la sua attività letteraria cessò improvvisamente. Di contro, diede largo spazio a lunghissime passeggiate che sopravvissero alla scrittura stessa o, meglio, vi si andarono via via assimilandosi. Interrotta l’attività letteraria, l’autore diventò egli stesso il registro su cui la penna della sua mente annotò pensieri e riflessioni. Attraverso queste lunghe camminate riuscì ad incanalare la sua follia, governandola, plasmandola sulla linea della bellezza, della meraviglia, dello stupore. La passeggiata , come la scrittura, accompagna il narratore lungo i sentieri interrotti dalla sofferenza psichica. Sono sentieri che attraversano i boschi, immersi nel silenzio e nell’oscurità, nei quali si nascondono le tracce luminose dell’anima.

 

 

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