La Sicilia reale e fantastica di Giuseppe Bonaviri
Dal microcosmo di Mineo ho assorbito miti che sono stati determinanti per me. Come già da anni vado dicendo, per me hanno avuto grande importanza gli elementi conformanti il paesaggio, anche quelli dinamici, e forse soprattutto quello dinamico-terrestre: voglio dire il vento […], il cielo rotante […], il volo e il canto degli uccelli; il fiorire e lo sfiorire dei cespugli; la natura vista da Mineo alta sul monte, vallate fiorite o secche e bruciate, […] notti in cui il cielo era davvero come un tappeto luccicante e così terribilmente profondo da dare un senso cosmico di latitudine celeste senza fine. Un assieme di cose che in chi ci viveva davano vita ad una specie di linguaggio prelogico, un che di vibrante musicale, che già ci inseminava di ritmi, che poi diventavano attualmente parole. […] Ogni cosa mi veniva non dai libri ma dalla coerente, mobile e sommaria sapienza contadina. La mia matrice tuttora la cerco e la trovo a Mineo, nel suo ampio ambito di terre rupestri e vallate, nella sua tradizione, sebbene selettivamente contadina, di proliferanti mitopoiesi. Mineo è un cosmo di cultura.
Queste parole, pronunciate da Bonaviri durante un’intervista rilasciata a Franco Zangrilli, racchiudono il senso più profondo del legame che lo scrittore ebbe con Mineo, suo paese natìo. Bruciato dal sole nel periodo estivo e sferzato dai venti freddi e dalle piogge invernali, questo piccolo paese siciliano è adagiato lungo le pendici dei monti, un tempo interamente coperti da una folta vegetazione, ora spogli, quasi nudi.
L’infanzia di Bonaviri, vissuta a contatto con una natura viva e palpitante, è il dato fondante di quasi tutta la sua opera letteraria, che si avvale della memoria come mezzo per approfondire e dilatare la realtà. L’attività poetica dello scrittore ha inizio all’età di nove anni, stimolata dall’atmosfera magica che aleggiava intorno alla pietra della poesia, sull’altopiano di Camùti, dove si riunivano poeti dialettali provenienti da tutta la Sicilia per gareggiare scrivendo versi, come testimonia anche Giuseppe Pitrè.
L’origine siciliana ha un peso importante nella lunga produzione letteraria dell’autore: terra di contadini e di poeti, culla di diverse civiltà, la Sicilia è vista nei suoi aspetti più misteriosi e primordiali, è sentita come ritorno all’infanzia, è letta con gli occhi dello scienziato – filosofo presocratico. La cultura millenaria e la mitologia dell’isola si riverberano sulla pagina conferendole un gusto antico, ancestrale. Questi elementi portano lo scrittore a valicare i confini di una certa tradizione letteraria entro i quali si collocano le opere di illustri scrittori siciliani come Verga, Pirandello, De Roberto, Vittorini, Brancati, Sciascia. Bonaviri, infatti, pur muovendo dal dato reale, sconfina poi nel surreale: così la parola acquista un significato sacro, diventa espressione di una poesia che è terrena ed, insieme, ultraterrena, metastorica.
L’esordio narrativo è del 1954 con il Sarto della stradalunga, pubblicato da Einaudi nella collana de “I Gettoni” diretta da Elio Vittorini, il quale aveva scritto, a proposito del romanzo, che “anche le erbe e gli animali, i sassi, la polvere, la luce della luna e del sole partecipano alle povere peripezie del sarto e dei suoi”.
Sebbene nascano nel clima del neorealismo, le prime opere di Bonaviri si distinguono per una tecnica narrativa e uno stile poetico tali da farne un “caso” letterario. Il tessuto realistico, che pure ne innerva le pagine e offre un quadro della società contemporanea, mai diventa un manifesto di denuncia sociale e politica. Infatti, fin dagli esordi comincia a prendere corpo, nelle sue opere, una singolare concezione filosofica relativa al rapporto che ogni essere vivente (piante, animali, esseri umani) instaura sia con il microcosmo cittadino, sia con il macrocosmo rappresentato dalla natura primigenia. Questo sentimento cosmico sarà particolarmente dominante nella produzione successiva.
Bonaviri si richiama ad un mondo storico di usi, costumi, proverbi per far riaffiorare la mitologia legata alla tradizione della sua terra. Nelle prime opere, Il sarto della stradalunga, La contrada degli ulivi (1958), Il fiume di pietra (1964), il paese e la campagna circostante sono sempre presenti in una prospettiva realistica, pervasa, tuttavia, da sottili venature fantastiche. In questi romanzi, la dimensione spaziale e quella temporale si sciolgono nel flusso narrativo grazie alla memoria. In tal senso, Mineo si trova in una posizione di confine, come afferma Franco Musarra: “L’autore rivive nell’atto di scrittura frammenti della propria infanzia, in una distanziazione, oltre che temporale, anche spaziale che mira a divenire continuità superando in ciò i limiti dell’empirico”.
Il fiume di pietra è ambientato a Mineo nell’ultimo scorcio della seconda guerra mondiale e narra lo sbarco degli alleati anglo – americani in Sicilia nel 1943. Ma, differentemente da come viene affrontato di solito questo tema in letteratura, la tragica guerra è filtrata dagli occhi di un fanciullo e viene intesa come un gioco, come un interminabile girotondo, che dona una delicata freschezza al romanzo. E allora la guerra, riflessa nello specchio magico della fantasia infantile, appare analoga alle battaglie degli antichi guerrieri contro i saraceni de L’Orlando furioso, poema epico dell’Ariosto. La guerra mondiale fa da controcanto alla guerra che si combatte a Mineo, che ha radici più lontane nel tempo; è la primordiale lotta verghiana per la sopravvivenza, è la ricerca spasmodica di cibo, è pugnace delirio di primitività con cui i ragazzi “di strada” esercitano un’ancestrale, innocente violenza. Lo spazio concreto della realtà siciliana, però, si dissolve presto nello splendore magico del sogno e del mito.
La Sicilia concepita dallo scrittore è luogo di metamorfosi, spazio paesistico dove ciò che sembra essere rimasto cristallizzato come nei primordi, qui si trasforma. Dappertutto, impera la memoria dell’infanzia e degli odori e si intensificano le luci e i colori della natura, intesa come “pozzo sensoriale” da cui emerge una cultura che affonda le sue radici nel sostrato popolare. Il riferimento all’isola, pertanto, determina l’azione della memoria, in modo particolare quella visiva, olfattiva e sonora.
Come ricorda Gaetano Trombatore, Mineo ha un posto nella letteratura italiana grazie a Capuana e, soprattutto, a Bonaviri, come Aci Trezza vi entrò con Verga e Catania con De Roberto.
Nell’opera dello scrittore siciliano prende corpo il rapporto dell’uomo non solo con la sua terra e con l’ambiente circostante, ma anche con l’intero cosmo. Tale polarità tra paese e cosmo è viva ne La divina foresta (1969), romanzo che racconta la storia della metamorfosi di una particella. Teatro della polivalenza dell’essere è il paese.
[…] Ci portammo sempre più in basso, sinchè finimmo presso un rilievo di monti che chiamai Camùti, per non confonderlo con altri rilievi, e là, a fondovalle, vidi per la prima volta un torrente che scorreva in un dolce snaturamento di acqua. […] Mi accorgevo che ogni cosa si riduceva a un’informe trasformazione, che tale rimase anche quando dai monti di Camùti venne un bianco irraggiamento di cose disfatte e il torrente si sollevò sulle giuncate, sulla bassa erba molle e sui tratti d’argine in cui crescevano i primi fiori.
Microcosmo e macrocosmo sono presenti in quest’opera e, in tal senso, proprio Mineo diventa qui un’allegoria della storia universale: è un luogo circoscritto che, appunto, contiene in sé la storia reale e fantastica del mondo e guardare in esso significa fissare nell’abisso dei tempi il fluire delle forme dell’esistenza. Come ha sottolineato Giorgio Manganelli nell’introduzione all’edizione 1980 dell’opera, si può parlare di una coniunctio oppositorum, vale a dire di una unione di elementi apparentemente opposti, tali da creare una condizione ossimorica. E’ chiara, infatti, la polarità tra realtà e sogno, tempo e spazio, finito e infinito. In questa dimensione il cosmo finisce con il rappresentare anche la realtà dell’anima “per esprimere il mistero in cui tutto è immerso e si rinnova, in un incominciamento senza fine”.
Dunque Mineo non è soltanto un topos geografico, ma rappresenta anche il luogo dei tempi preumani, è lo spazio della trasformazione. E’ di peculiare importanza quanto afferma, ancora una volta, Giorgio Manganelli a proposito del valore che assume il paese all’interno di questo particolare romanzo:
Mineo […] è il punto della terra da cui lo scrittore è stato generato, è dunque un ombelico del mondo. […] Mineo è un nome, un suono che sostiene e circoscrive un luogo. Frequenti erano le mitologiche nascite dalle zolle; ma quel mondo capace di gravidanza e di parto non ha la forma del nostro mondo. […] ora, ombelico è centro non geometrico, ma corporale, simbolico, organico. […] Codesto “mondo” fertile ed enigmatico ha talune qualità che non sembrano compatibili col mondo infecondo e misurabile cui siamo abituati. […] Tutto ciò che vivendo lo fa vivo porta in sé memoria, speranza, indizio di infinite forme. […] La storia del mondo è la storia delle sue metamorfosi; potremmo dire, è la storia della fecondità del suo “ombelico”, e dei nomi che, trasformandosi, assumono gli esseri che sono le membra del mondo.
Tale vitalità è sollecitata dal fatto che la terra-madre dell’autore è da lui concepita come grembo generatore di vita e di conoscenza, depositaria di una memoria senza tempo.
Va comunque sottolineato che, anche se ne La divina foresta Mineo continua ad essere il centro dell’universo bonaviriano, il romanzo segna una svolta del percorso letterario dello scrittore. Difatti, appare più marcatamente esplicito il rapporto uomo-terra che si sviluppa parallelamente a quello uomo-cosmo.
Il paese comporta anche il ricordo del cielo “morbido come seta sulle case” o aperto “sugli abissi del firmamento”: questi spazi aperti racchiudono il senso del cosmo ma anche i punti di frattura delle cose, le “faglie sismiche” della superficie che si incurva in se stessa e rivelano l’ansia di ricerca dello scrittore.
Anche nell’universo di Dolcissimo (1978), Zebulonia, proiezione letteraria dell’isola, terra arida e antica, emette dai solchi vestigia del passato e in essa vive l’anima del mondo.
E’ un rosseggiar di peschi e d’albicocchi (1986), conferma questa capacità di Bonaviri di trasfigurare poeticamente il suo paese natìo attraverso un’immaginazione resa ancor più palpitante da un’acuta sensibilità. In questo romanzo vi è un’ambientazione nuova, l’India, che però è lo specchio di Mineo in ogni suo aspetto. Si ricordi che questo paese, nelle opere precedenti, aveva indossato, di volta in volta, vesti preistoriche, moderne, arabe; aveva animato la fantasia dello scrittore e la memoria dei suoi familiari. La nuova dimensione esotica è abilmente recuperata da Bonaviri attraverso la lettura di testi favolosi e d’avventura. Ma, come è stato già detto, l’India qui è descritta con le caratteristiche di Mineo: “In India, nella ruota del tempo da venire, le due amiche avevano raggiunto i giardini d’aranci che coronavano, in alto, Benares. Le foglie, nonostante la siccità, erano lustre, i frutti d’un verde splendente”;vi sono pure la calura e la siccità tipiche della Sicilia: “Seccarono i fiumi, le praterie si riempirono di vene sanguigne di sabbia in mezzo a cui morivano le gigantesche mangrovie”. Anche i problemi della terra esotica bonaviriana sono comparabili a quelli dell’isola, soprattutto la disoccupazione, l’emigrazione, la fame e la carenza d’acqua. L’autore riesce ad universalizzare la sua terra, assimilandola ad altri luoghi reali e immaginari, persino in un’India favolosa e sensuale.
Mineo è soggetta ad un costante processo di mitizzazione, divenendo uno dei nuclei semantici più densi di significato. In un tale contesto, appare particolarmente incisiva la pagina narrativa, poiché è tesa al recupero del passato attraverso l’efficace strumento della parola. In essa, infatti, il nostro scrittore è riuscito ad annullare la distinzione tra passato e presente in una metaforica rappresentazione della continuità. Il suo paese natale viene inserito nel mondo greco-omerico ne Le armi d’oro (1973), trasformandosi nel vago Zebulonia in Qalàt – Minaw (variante araba del nome) e in Idrisia nel romanzo Silvinia (1997). Quest’ultima opera, dove è raccontata la storia di un gruppo di bambine di nazionalità diversa, dà, nuovamente, allo scrittore l’occasione di rievocare le radici della propria memoria siciliana: quello di Bonaviri è un ricordo che prende le mosse dalla sua più intima esperienza, per sviluppare, poi, una narrazione in cui, pur risuonando sempre la campana del nostro vivere tormentoso, si avvertono i toni e l’estrema delicatezza della fiaba.
Così scrive Bonaviri:
La casa del maestro Salvatore Casaccio panettiere si trovava alla periferia di Idrisia, in un quartiere alto dove dai monti arrivava il freddo che non dà gaiezza, scorrendo sui tetti e fasciando le spine dei cespugli. Indietro, la campagna in risalita era piena di sassi di lava dai bordi taglienti. Nel passato a Idrisia si erano stanziati, e acclimatati, dei portoghesi, degli spagnoli, e un gruppo sparuto di libici dediti alla coltivazione dei datteri, poveri monaci vagabondi, abissini – mercanti d’avorio – e genti paflàgone provenienti dall’Asia Minore. Queste ultime credevano che i tanti Iddii esistenti nel mondo si formassero per l’agglomerarsi delle anime dei morti.
Oltre a queste forme “mitizzate”, che ne La divina foresta raggiungono la fase preistorica dello spazio su cui sorge Mineo, il paese rappresenta per lo scrittore il “luogo ombelico del mondo”, una piccola realtà che abbraccia il mondo soggettivo e l’universo cosmico, è l’ambiente di iniziazione alla vita e alla conoscenza lungo un percorso segnato dalle regole della natura.
Invece, nella presentazione de Il treno blu (1978) Mineo è connotata storicamente e viene messa in luce per aver partorito uomini di notevole spessore culturale:
Questa storia comincia da Mineo, il mio paese, che si trova in Sicilia, nella provincia di Catania. Sorge su un monte che gli antichi greci chiamarono Menàion per indicare un luogo alto e solitario, e gli arabi Qalàt-Minaw, ossia altura di Mineo. Secondo la leggenda fu fondato da Ducezio, re dei Siculi, il quale da solo si oppose ai greci che avanzavano dalle coste marine per colonizzare l’isola. Ha subito diversi terremoti di cui il più noto è quello del 1693 che lo rase al suolo. Ha avuto molti uomini illustri, come Ludovico Buglio, […] il poeta dialettale Paolo Maura, […] e lo scrittore Luigi Capuana, caposcuola del verismo.
E nel racconto Gesù vecchio uomo bianco, tratto dalla raccolta Lip to lip (1988), l’autore torna a marcare le radici storico – culturali del proprio paese:
Mineo il mio predetto paese (detto Mene dai Siculi, Menàion dagli Elleni, Menàini dai Cartaginesi, Menae dai romani, Qalàt-minaw dai Saraceni e Minèi dai medievali), nel secolo scorso aveva, dentro le mura urbane e nelle contrade extraurbane, circa settanta chiese (con adeguato immenso personale prelatizio), di cui esistono ormai insicuri ruderi su cui dormono in aprile le lucertole o vi cresce in ciuffi, misti a rovi, la parietaria.
In questi ultimi due passi sembra quasi che Bonaviri voglia costantemente ricordare al lettore le molteplici forme con le quali designa lo spazio narrativo da lui privilegiato.
La Sicilia assume, a seconda delle circostanze, un valore diverso: nei primi romanzi emerge lo scopo documentario, in altre opere la terra di Cerere coincide con un luogo utopico, in altre ancora non costituisce soltanto lo sfondo dove si stagliano le vicende, ma diviene paesaggio fisico e psichico con cui lo scrittore si confronta, come risulta evidente ne L’incominciamento, pubblicato nel 1983. Il testo si compone di circa centocinquanta pagine che sembrano essere un ripescaggio, sul filo della memoria, di un passato denso di segni che prefigurano e alludono a eventi futuri: il loro oggetto è l’irrisolto mistero del vivere, inteso come totale e immanente trama dell’universo. Le segrete parentele tra gli esseri terrestri e astrali, le affabulazioni di cui sono ricchi i vicoli del paese e l’ambigua saggezza dei protagonisti, sono il vero elemento ispiratore del testo.
La Sicilia di Bonaviri non è soltanto un’idea geografica, ma è intesa come humus, madre, epifenomeno di diffuse spiritualità. Il rapporto che lega lo scrittore alla terra di Cerere rimanda ad un metodo di scoperta del proprio vissuto che, in letteratura, ha trovato i suoi esempi non solo in scrittori siciliani come Sciascia e Bufalino, ma anche nelle tendenze più vaste della letteratura europea “memorialistica” del Novecento. In tal modo, il ricordo conduce nostalgicamente lo scrittore in un tempo lontano fatto di quotidianità e di semplicità, dove il padre, sarto, suggerisce al figlio di “ricucire” i fili del passato con quelli del presente, in una perfetta e armonica circolarità temporale.
Quando noi guardavamo dall’altopiano di Camuti, su cui brillava il vento misto al grano, lui, indicandomi di fronte, oltre la vallata di Fiumecaldo, il nostro paese che si arrotondava sul monte in splendore, mi diceva: “Senti, Pippino, dinanzi a noi due c’è Mineo con i suoi artigiani che lavorano, con le donne che senza interrompimento accudiscono alle faccende ordinarie; e, sotto, nelle valli, nelle giunture dei picchi abbinati, e sulle alture, lavorano i villani; o vanno, per cercare nutrimenti, le capre tra macchie e cocuzzoli senza alberi. Se tu con la mente unisci tutto questo per fili, per esempio di seta, e lo cuci, come faccio io con un vestito, nella stessa gugliata imbrigli artigiani, contadini, donne, bestie e albereti. Cioè, hai un tempo tondo, perfetto, che in ogni suo punto circolarmente vibra d’armonia.
Ne L’incominciamento il discorso è avvolto da una più marcata sensibilità poetica e, attraverso un racconto frammentario arricchito da preziosismi dialogici e lessicali, ripercorre le tappe della memoria culturale, storica, umana, dell’autore. La narrazione, pertanto, è intrisa di biografismo. Anche qui, come nelle precedenti opere, lo stile assume quel singolare e fresco movimento che piega le cose ai colori, ai suoni, ai moti dello spirito. Ma vi è di nuovo che il racconto viene tessuto non più su un vasto spazio narrativo, ma come in miniatura: la narrazione, infatti, è contenuta in una serie di bozzetti inscritti e cesellati in minuscoli riquadri che esaltano l’intensità e la pregnanza dell’immagine. Il testo è una raccolta di trentuno capitoli a carattere episodico, ognuno dei quali è seguito da una poesia che reca per lo più lo stesso titolo ed ha il medesimo soggetto della parte in prosa. Dunque, vi è una duplice lettura dello stesso avvenimento, dove la poesia ripete in versi l’asciutto splendore della prosa.
Questi episodi compongono un mosaico le cui tessere rappresentate nello spazio narrativo, sono il narratore e tutto ciò che torna alla memoria e aiuta lo scrittore a ripercorrere i sentieri della propria biografia psicologica. Al centro di questo mosaico di microstorie, c’è il rapporto viscerale e catartico di Bonaviri con la sua amata terra, nel quale sembrano risolversi le illusioni e le negazioni della quotidianità; esso spiega la coralità di una ricerca, tra scienza e poesia, che è centrale in tutta la sua opera.
Ne L’incominciamento, in particolare, Mineo è motivo originario e unificante della narrazione. Nella sintesi tra osservazione del reale e slancio fantastico, la percezione realistica del paese sconfina e si dissolve nella leggenda, mentre il tempo storico, delimitato e misurabile, viene scandito insieme a quello lontano e archetipico del mito. Il mito, fonte di antiche credenze, la cui spiegazione occupa brevi inserti saggistici, non è mera sovrapposizione intellettualistica, bensì motivo che, senza forzature, balza fuori dalla narrazione per poi esservi silenziosamente riassorbito.
Raccontini, brevi saggi e poesia si alternano e si mescolano per tratteggiare un’immagine ricca e pregnante della Sicilia; poco a poco, però, questa immagine si attenua per dar voce alla generale vicenda dell’uomo e, ancor di più, all’intera vita cosmica fatta di incominciamenti e di abissi.
Una grande forza d’urto che scuote queste pagine è il dialetto, radice di un apprendimento della realtà del mondo, ancestrale e atavica, primo motore di percezione delle cose, ma anche di amore per la parola. Esso è un elemento catalizzatore che porta verso la fiaba, verso l’eterno principio di esperienza da narrare: è il dialetto strano dei pupari siciliani, quello dei contadini e degli artigiani dell’isola, quello appreso nei vicoli e nelle case povere, quello di un ricettario di cucina dettato da una zia, ed è anche quello austero ma vivo del padre.
A Mineo e nella Sicilia orientale è ambientato idealmente anche L’arenario (1984), una raccolta di saggi per lo più sulla cultura orale siciliana. Bonaviri rilegge Pinocchio e I promessi sposi, nella prospettiva di un confronto con l’epos di Orlando nell’isola, e rivisita Le mille e una notte alla luce delle fiabe siciliane. È chiaro che il paragone è soltanto un pretesto per rappresentare un “mondo sonoro, rappresentabile, frastornoso, corale, senza tempo definito”: questo universo è quello della mitologia popolare siciliana, dove Orlando e Rinaldo sanno di avere “il calore di una pietra sotto il sole” o possono trasformarsi nella “voce d’un torrente”.
In O corpo sospiroso (1982) si rafforza il cordone ombelicale che lega Bonaviri al suo paese, considerato l’omfalos, il centro del mondo. Mineo diventa un simbolo mitico e magico in cui lo scrittore cerca di decifrare le arcane verità celate dalla millenaria cultura contadina. La tessitura linguistica è caratterizzata da effetti espressionistici tipici del poeta siciliano, in cui gli echi del mondo classico, le voci arcaiche e le cadenze epiche si sposano con le locuzioni del parlato e con i ritmi della canzone arcadica. Lo stile è condizionato dal tema del ricordo: la parola, quindi, è sempre parola ricordata.
Attingendo all’inesauribile patrimonio di storie e di leggende di cui è ricca la Sicilia, Bonaviri allestisce una sorta di cosmologia in versi, senza mai cadere nell’astrazione o nel concettualismo. Il poeta inchioda ogni minimo evento con una parola esatta e saporosa, estratta sia dal dialetto sia dall’italiano; sono parole che sembrano sedimentate di storia naturale e umana insieme. E proprio il dialetto siciliano è una delle note caratterizzanti del complesso linguaggio bonaviriano.
Affermando che “ogni linguaggio spesso deriva, per sottili vie di memorie e di suoni e di gesti, dall’ambiente in cui ci siamo formati”, Bonaviri ribadisce che il suo stile espressivo è fortemente influenzato dall’origine isolana e, in particolar modo, mineola.
Le Novelle saracene (1980), per esempio, sono un’opera nutrita dai racconti di fiabe che le donne del paese ereditavano da poeti vagabondi o da aedi solitari.
Per me è stato un ricreare in modo gioioso ed esilarante la lingua femminile, materna. […] Dopo tanti libri sono arrivato al nucleo di questa lingua materna, siciliana. Non posso dimenticare le cantilene che le madri cantavano ai bambini per addormentarli. Quindi da una componente di tecnica narrativa popolare si può trarre tessuto di parole ricreate sul filo della tenerezza d’una lingua femminile. Più emotiva, più duttile, più umbratile, più metaforicamente riproducibile. Insomma, è un calare nelle segrete sorgenti sotterranee d’una lingua materna che, a ben pensarci, si può se non enucleare certo individuare per trame e cordoni e umori in ogni regione e in ogni nazione.
Dunque, il sostrato popolare siciliano si invera nella pagina bonaviriana attraverso la figura della madre e della sua straordinaria capacità di narrare. Questa donna, così presente nella vita dello scrittore, “gli ha donato un seme, che gli ha fatto meglio scoprire la radice mitico-storica, ossia quel torrente sotterraneo in cui ogni vicenda umana brilla e si fa luce”. La lingua – madre è sempre venuta alla ribalta in opere di struggente bellezza, quando Bonaviri torna a quel magma mai esplorato compiutamente che si è depositato nel fondo della sua anima.
Le novelle Innamorato di miele e Pelosetta sono un esempio di stratificazione storico – etnica di un epos cavalleresco del contado siciliano; ma, anche se qualche racconto della stessa raccolta affonda le sue origini nel patrimonio culturale eurasiatico, ha subìto delle varianti, acquisendo cadenze e recitativi tipicamente siciliani. Allo stesso modo sono presenti leggende in cui emerge la contrapposizione tra cristiani e musulmani, la quale, secondo lo scrittore Francesco Lanza, nella tradizione isolana, ha soltanto un valore artistico e non esprime alcun giudizio morale. Così Bonaviri attribuisce alla figura di Gesù Cristo un’origine saracena, mentre in altre novelle lo trasforma addirittura in un topo. Certamente non si tratta di un Gesù aderente ai canoni religiosi della tradizione cristiana, ma qui diventa un essere mitologico del folclore siciliano.
E’ opportuno, tuttavia, ricordare che l’opera di Bonaviri si alimenta di registri linguistici e stilistici diversi: i suoni delle cantilene popolari, la lingua vernacolare, gli arcaismi e i latinismi sono costantemente affiancati da neologismi e dal linguaggio scientifico tratto dalla fisica, dalla biologia e dalla medicina, creando così un amalgama linguistico inimitabile e originale. Tale plurilinguismo si piega a dar voce ad una sfera intima, profonda; lo scrittore indossa le vesti dell’investigatore per addentrarsi nei meandri dell’animo umano e per indagare, attraverso la parola, l’universo con le sue molteplici sfaccettature. Lo scrivere, dunque, è un processo di “ri-creazione” di se stessi e del mondo. Osserva, infatti, Bonaviri: “Lo scrivere è corporalizzare il mondo esterno che si porta dentro”.
La parola, così, secondo l’attenta e personale interpretazione dello scrittore siciliano, dopo aver sondato i percorsi tortuosi della vita, diventa il mezzo per dar corpo alla storia antropo-cosmica. Bonaviri si diverte a creare una osmosi di voci, memorie, profumi, colori e sapori, facendo della pagina narrativa uno scenario favoloso dove regna il canto della parola.
La Sicilia ha trovato in Bonaviri il suo aedo, il cantore di una civiltà che è il frutto di mille altre civiltà insieme, di una storia reale fusa in un tessuto incantevole. Mineo diviene così un microcosmo segnato dalla sofferenza della storia e, allo stesso tempo, dall’eterna illusione di una realtà diversa, fatta di silenzi e di luce stellare. Nella sua opera riemergono sempre i paesaggi siciliani assolati e petrosi, lo scorrere delle acque, i colori cangianti delle stagioni, i voli degli uccelli e le ombre dei campi, in un vorticoso circolo della vita, segnato da dissonanze e contraddizioni. E Bonaviri, in questa peregrinazione rituale, è il maestro che guida il suo lettore attraverso le strade già percorse e vie insolite, alla scoperta di nuovi panorami, dinanzi a cui l’anima, pur rumorosa e tremante, riesce a non smarrirsi. E quando arriva la morte che tutto annulla, il valore della sua scrittura continuerà a custodire i sentimenti che resteranno immobili ed eterni vincendo le barriere del tempo.
[…] Sotto l’altra ala, si porterà, in una cassetta, le mie poche ossa rimaste dopo la morte per seppellirle nel piano frumentoso, a Camùti, vero giardino della Esperidi. E, fermandosi il tempo, forse resteremo tra messi e fiori, e tra le Dee, tutti noi resteremo immobili in eterno.

[…] Recensione sulla Sicilia di Giuseppe Bonaviri […]
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