RACCONTARE SENZA COMMUOVERE, RECENSIONE DI «IDDA» DI MICHELA MARZANO (di Vittorio Panicara)

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La domanda che viene spontanea a chi si interessa di testi narrativi italiani contemporanei è se si possa parlare di autentico valore letterario nei casi di successo editoriale accompagnato dall’apprezzamento della critica. Molto spesso, infatti, pare che una buona trama, eventualmente con personaggi discretamente delineati, e qualche spunto autobiografico bastino a ottenere il successo del pubblico e dei critici, e magari un premio. Per avere un’idea della complessità del problema esamineremo un testo recente: «Idda» di Michela Marzano, edito nel 2019 per i tipi di Einaudi. Il motivo della scelta risiede nella figura dell’autrice e nei temi affrontati dal romanzo.

Michela Marzano, nata a Roma nel 1970, di origini salentine, vive da circa venti anni a Parigi ed è celebre sia da noi che in Francia. Dopo aver conseguito il dottorato in Filosofia alla Scuola normale superiore di Pisa, si è trasferita a Parigi, dove attualmente è direttrice del Dipartimento di scienze sociali (SHS) della Sorbona ed è professore ordinario all’Université Paris Descartes. Si occupa di filosofia morale e ha scritto molti saggi e romanzi, sia in italiano che in francese. Il suo «L’amore è tutto: è tutto quel che so dell’amore» ha vinto nel 2014 il Premio Bancarella. È stata anche parlamentare per il PD, è giornalista (scrive su “Repubblica”)  e appare spesso in televisione. Il suo profilo, dunque, sembra quello di chi, apprestandosi a scrivere, parte dalle premesse migliori.

La scelta dei temi in «Idda», tutti di estremo interesse, sembra confermare quest’impressione: la perdita dell’identità in un caso di demenza senile; il valore della memoria per recuperare il passato e fugare le ombre che ne scaturiscono; la complessità delle relazioni umane, dall’amore di coppia al rapporto tra padre e figlia. La protagonista, Alessandra, biologa vegetale a Parigi, dove insegna, racconta di sé, del suo amore ricambiato per il suo compagno Pierre. Tutto ha inizio con la scoperta della malattia della madre di Pierre, Annie, che dovrà essere ricoverata tra i dementi del Parco delle ginestre. Il lettore sa delle condizioni di Annie grazie soprattutto alle parole della narratrice e ai dialoghi con Pierre; non si può dire che venga troppo coinvolto nella traumatica esperienza di Annie, ma viene incuriosito sul suo passato, appunto come avviene alla stessa Alessandra, incaricata di sgombrare il suo appartamento. Si appassionerà così tanto alla vicenda della donna da scoprirne i segreti del passato e da ricostruire la sua vera personalità. Annie perde la memoria e pezzi di sé man mano che Alessandra grazie alle sue ricerche inizia veramente a conoscerla. Riferendosi a Pierre, lo compatisce, perché sua madre è come se fosse morta:

Come si fa a rielaborare il lutto di una persona ancora viva? Un figlio può tollerare l’angoscia della perdita inevitabile della madre, che conosce da sempre e che, tuttavia, fa fatica a riconoscere?

I personaggi, visti dall’ottica di Ale, cioè di Alessandra, sono funzionali al racconto, ma non sembrano vivere di vita propria. Le stesse condizioni mentali di Annie vengono descritte in maniera un po’ sbrigativa, con pochi cenni, nonostante la pregnanza del tema. Pierre è un uomo affettuoso e gentile, ma di lui, delle sue emozioni e dei suoi pensieri, si sa troppo poco; analogamente, l’amore tra lui e Alessandra è tracciato solo a grandi linee e non si notano accenti granché passionali.

Ma è la trama a primeggiare, non senza brillanti invenzioni narrative, con una vicenda complessa e una saggia distribuzione della materia nelle quattro parti del testo e negli agili capitoli. Alessandra scopre i segreti di Annie – si legga il carteggio con Jean nel capitolo 26, con il dramma dell’aborto  – e da ciò trae il coraggio per affrontare finalmente il proprio passato in Salento, quando morì sua madre e lei incolpò il padre, ubriaco al momento del tragico incidente stradale. Si recherà a casa del padre, prendendo di petto la realtà, riconciliandosi con lui e con la propria storia personale, arrivando finalmente alla scoperta di sé, meta finale del suo viaggio narrativo.  È a questa verifica finale che tende, infatti, tutta la narrazione.

Se l’istanza memoriale è centrale, è anche vero che essa tende sempre a verificare gli stati d’animo della protagonista, in un percorso che pare più che altro un’autoanalisi. In frasi come

E dall’oblio è riemersa, improvvisa, l’immagine di mamma che puliva rame e ottone

e nella stessa pagina del cap. 28, meno direttamente,

Come funziona la memoria? Perché va e viene come meglio crede?

sono rinvenibili i traumi e le incertezze di Alessandra, non quelli degli altri. I drammi altrui, innanzitutto quello di Annie, ben più lacerante del suo, le servono per capire, alla fine di tutto, soprattutto se stessa; ecco perché il racconto può dirsi sostanzialmente autoreferenziale e perché permane in chi legge un certo distacco dai drammi degli altri personaggi. Ma anche la stessa storia della protagonista non avvince come dovrebbe il lettore. Un esempio: il padre di Alessandra nel cap. 41 si riappacifica con la figlia, ma i dialoghi sono davvero scontati e comprendiamo solo da lontano il dolore dell’uomo:

Mi sei mancata, Ale. Mi sei mancata tantissimo. Perché te ne sei andata via? Perché non sei mai tornata?

Ma lui sa benissimo le ragioni di Alessandra, di “idda” (cioè di lei, in dialetto), che lo ha incolpato della morte della madre.

Ma un giudizio su un’opera letteraria non può certo prescindere dalle modalità narrative e stilistiche. Ed è qui che l’autrice, nonostante la buona strutturazione data al testo, rivela le pecche maggiori e il vero motivo della scarsa presa della sua prosa. L’insistenza su un io narrante così dominante è eccessiva, non lascia spazio a riflessioni di altri, neppure a quelle… di Michela Marzano. Un’altra citazione, dal cap.23, quando Alessandra parla con la dottoressa Brun, che risponde alle sue domande esistenziali, chiarisce il senso della perdita della memoria:

quando non si è in grado di relazionarsi con gli altri come si faceva in precedenza, rimane sempre qualcosa. […] Resta quello che noi specialisti chiamiamo i «residui di sé» […] rimane la percezione di ciò che accade, rimane l’affettività.

Non essendoci un io extra-diegetico, l’autrice affida l’espressione delle sue idee alle parole della dottoressa e alla protagonista, nel momento della presa di coscienza finale. Il valore superstite nella coscienza della persona che perde la nozione di sé è l’amore: l’unica frase che non scompare mai è «ti amo» (ancora la dottoressa Brun). Certo, il lettore dovrebbe immedesimarsi con Alessandra, ma è cosa non molto facile, se deve affidarsi soltanto ai dialoghi e alla narrazione della protagonista.

Prima di mettere in evidenza il problema veramente irrisolto di “Idda”, sarà utile una breve digressione, ricordando alcuni tratti biografici dell’autrice. La Marzano ha dovuto superare molti problemi personali, come l’anoressia e un difficile rapporto con il padre, e ha conosciuto da vicino in famiglia  l’esperienza della demenza senile, tutti argomenti di cui ha trattato sia in questo che in altri suoi libri. Non credo che l’autobiografismo sia di per sè un difetto, ma talvolta non permette a un autore il necessario distacco dalla materia narrata. Difficile, nel caso di “Idda”, stabilire se ciò sia avvenuto.

Il problema veramente irrisolto del romanzo, in realtà, è la scelta linguistica compiuta dalla Marzano: stile del parlato, lessico limitato e scarsamente connotato, semplicità sintattica e logica elementare dei ragionamenti. Com’è possibile in questo modo approfondire le tante tematiche toccate? Ci sono delle fonti letterarie che hanno condizionato la scrittrice? Forse il realismo americano? Non sembra. Si potrebbe giustificare la scelta ipotizzando un intento mimetico spinto all’estremo, ma una biologa docente universitaria come la protagonista dovrebbe esprimersi in modo più complesso e argomentato.

In realtà, il bisogno di semplificare la comunicazione a beneficio dei lettori meno provveduti vanifica gli sforzi della Marzano, che sarebbe stata più convincente se su questi temi avesse scritto un saggio e non un romanzo. Avrebbe approfondito l’esame dell’io, avrebbe scavato all’interno dell’anima di coloro che soffrono di uno stato neurodegenerativo, avrebbe saputo analizzare i tanti conflitti interiori che affliggono la vita familiare. «Idda» ci racconta una storia interessante, ma non sa avvincere e commuovere il lettore.

In conclusione, l’ultimo romanzo della Marzano racconta una storia credibile, con evidenti spunti autobiografici, ma tutto ciò non permette di riconoscere nel testo, per le ragioni dette, un autentico valore lettarario. Pur avendo tutto per essere una grande scrittrice, Michela Marzano con «Idda» non coglie veramente nel segno. La vera letteratura è qualcosa d’altro.

 

P.S.

Alcuni link utili per documentarsi:

Un’intervista a Michela Marzano: https://www.ilsole24ore.com/art/michela-marzano-e-idda-cosa-resta-quando-si-perde-memoria–AFV4HtF

Una stroncatura: https://www.linkiesta.it/it/article/2019/02/01/iddadi-michela-marzano-un-temino-sullalzheimer-capite-la-malattia-legg/40926/

Un buon riassunto e qualche elogio: https://www.criticaletteraria.org/2019/01/Michela-Marzano-Idda-einaudi.html

 

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