I Trotta erano un casato di recente nobiltà. Il loro progenitore aveva ricevuto il titolo dopo la battaglia di Solferino. Era sloveno. Sipolje – il nome del villaggio d’origine –divenne il suo predicato nobiliare. Il destino l’aveva prescelto ad autore di un gesto straordinario. Ma egli provvide a che i tempi futuri perdessero memoria di lui. Nella battaglia di Solferino comandava un plotone come sottotenente di fanteria. Da una mezz’ora e in corso il combattimento. Tre passi dinanzi a sé vedeva le schiene bianche dei suoi soldati. La prima fila del plotone stava in ginocchio, la seconda in piedi. Tutti erano sereni e sicuri della vittoria. Avevano abbondantemente mangiato e bevuto acquavite a spese dell’Imperatore, che dal giorno prima era sul campo. Qua e là, nelle file, qualcuno cadeva. Trotta balzava al volo dove s’apriva una breccia e sparava quei fucili abbandonati da morti feriti. Qua e là, nelle file, qualcuno cadeva. Trotta balzava al volo dove s’apriva una breccia e sparava coi fucili abbandonati da morti feriti. Ora serrava stretta la fila fattasi rada, ora la ridistendeva, scrutando con occhio di lince in ogni direzione, tendendo spasmodicamente, in ogni direzione l’orecchio. Fra mezzo il crepitio di fucili il suo udito finissimo coglieva i pochi comandi ad alta voce del capitano. il suo Nokia Cut offendeva la nebbia azzurrina dinanzi alle linee nemiche. Fermezza il crepitio di fucili il suo udito finissimo coglievi pochi comandi alta voce capitano. Il suo occhio acuto fendeva la nebbia azzurrina dinanzi alle linee nemiche. Mai che sparasse senza prendere la mira, e ciascuno dei suoi colpi andava a segno. I soldati avvertivano la sua mano e il suo sguardo, udivano la sua voce e si sentivano sicuri.
Philipp Roth, La marcia di Radetzky
