Il canto di un precoce addio. Antonia Pozzi, Desiderio di cose leggere, Salani Editore (recensione di Maresa Schembri).

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Antonia Pozzi costituisce un caso letterario a lungo trascurato, isolato e poco noto fino alla riscoperta da parte di Montale che ne decretò la ribalta.

La giovane poetessa milanese, una delle voci liriche più sofferte, più pure, più intense e più toccanti della poesia femminile contemporanea, nacque nel 1912 e crebbe in un ambiente alto-borghese colto e raffinato che le offrì molti stimoli culturali. In età adolescenziale cominciò a scrivere le sue poesie, dove l’intima vocazione alla morte ricorre spesso impietosa. Una vocazione, questa, che ebbe il suo triste epilogo nel 1938 quando Antonia si avvelenò con un flacone di barbiturici nell’abbazia cistercense di Chiaravalle. Per evitare lo scandalo, la facoltosa famiglia negò il suicidio, attribuendo la sua scomparsa ad una polmonite, ed evitò di far conoscere le sue poesie sulle quali tentò di fare un’operazione di censura.

La produzione della Pozzi in Desiderio di cose leggere si estende per un arco di tempo di nove anni: dal 1929, quando a diciassette anni comincia a scrivere, al 1938, quando si arrende alla morte.

Nella copiosa opera vi sono componimenti dedicati al suo professore di latino e greco Antonio Maria Cervi, nei confronti del quale la poetessa nutre un profondo amore ostacolato, però, dalla sua famiglia. I versi a lui indirizzati lo rievocano con nostalgia e con toni struggenti, raccontano il dramma della fine del loro rapporto, descritto in La gioia come una “fiaba”.

Ma nello sfondo delle sue prove poetiche si scorge la sensibilità di Antonia Pozzi verso l’ambiente naturale e verso gli animali e, in modo particolare, affiora l’affetto per il suo cane, a cui dedica un carme, Per un cane. Il paesaggio, che finisce col diventare una proiezione degli stati d’animo della Pozzi, si erge imperante nelle sue poesie. Grande amante della montagna, la poetessa ne sperimenta il fascino del silenzio. Un silenzio, a ben vedere, necessario per provare ad assimilare il dolore, per trovare un’isola di conforto in cui confrontarsi con le proprie speranze e i propri limiti. Perchè non esiste un silenzio assoluto: il sentire attraverso stimoli sensoriali rimanda sempre ad un’esperienza vissuta e questo risulta particolarmente evidente nel caso della poetessa milanese.

Tuttavia, la natura abbonda di suoni e di linguaggi che concorrono a rendere musicale il silenzio. E così “il tonfo dei sassi dentro i canali” (Rifugio 1934), il vento, le frane, lo sciogliersi dei ghiacci diventano motivi che nutrono la poesia di suggestioni nuove ed eterne. Le modulazioni del paesaggio d’alta montagna al tramonto, dove l’unico suono che amplifica il silenzio è lo sfaldarsi del vento, si ritrovano in Canto selvaggio (1929) in cui la dimensione del silenzio è riflessa in quella “fora irta e selvaggia/[…] ignota e vergine” che investe l’io poetico. Le montagne sono materne, mitigano l’inquietudine, leniscono lo sconfinato e palpitante dolore dell’anima. Sono umanizzate, fatte donne.

Le montagne

Occupano come immense donne

la sera:

sul petto raccolte le mani di pietra

fissan sbocchi di strade, tacendo

l’infinita speranza di un ritorno.

Mute in grembo maturano figli

all’assente. (Lo chiamaron vele

laggiù – o battaglie. Indi azzurra e rossa

parve loro la terra). Ora a un franare

di passi sulle ghiaie

grandi trasalgon nelle spalle. Il cielo

batte in sussulto le sue ciglia bianche.

Madri. E s’erigon nella fronte, scostano

dai vasti occhi i rami delle stelle:

se all’orlo estremo dell’attesa

nasca un’aurora

e al brullo ventre fiorisca rosai.

Parole forti come incisioni sulla roccia e delicate come petali che svolazzano sulle orme del vento. Ma costantemente trasudano il lacerante dolore per una speranza senza ritorno.

Oltre alla natura che accompagna i sentimenti della Pozzi, vi sono altri temi importanti nei suoi componimenti. Uno tra questi è il rapporto intrinsecamente complicato con il divino. Preghiera è un esempio di come la poetessa cercasse in Dio un punto di riferimento, una sorta di riscatto alle sue sofferenze, una protezione in cui trovare una ragione di vita.

Commovente è anche il carme Preghiera alla Poesia a cui affida alla poesia, personificandola, le proprie confessioni, fa di lei la sua “voce profonda” e la supplica di renderla degna dei suoi canti e delle sue vette. Antonia Pozzi, nel suo costante dialogare con essa, estrapola il nucleo della propria interiorità cercando disperatamente un valore divino, quasi mistico, nella sua tendenza ad essere altro in altro luogo, a perdersi nelle regioni oscure, seppur coscienti, del suo pensiero provato.

Il suo stile è limpido e immediato, privo di virtuosismi, ma è arricchito da una purissima ingenuità che impreziosisce le emozioni impresse sulla pagina, i moti sensibili del cuore e della sua mente che scorgono nella scrittura poetica un valore in cui trovare rifugio.

Ma il filo rosso che lega le poesie è la sofferenza del suo spirito. Antonia Pozzi ha saputo dare voce, attraverso i suoi versi, alla follia, all’ambiguo e sinistro richiamo dell’Altrove, all’appello consapevole della muta disperazione. Un’angoscia, quella della poetessa milanese, che trova la sua ragion d’essere in un malessere esistenziale, in una fame d’amore mai saziata, in una ricerca di compiutezza mai sopita. E così in questa valle alienante trova nella poesia il suo modo di essere nel mondo, facendosi portavoce di un mondo altro, ai margini della comprensione, al bordo dell’inverosimile.

Il fardello delle parole da lei usate è calibrato da una grazia malinconica difficilmente spiegabile. Le sue poesie sono piccole gemme letterarie il cui peso grava sulla sensibilità del tempo. Un tempo breve quello della sua vita, che spense tristemente la sua fiaccola dopo soli 26 anni. E questo irreprimibile desiderio di morte si manifesta nelle sue composizioni fragile, tenero, sempre garbato ma dall’accento forte, insopprimibile. Così come inestirpabile è stata la sua profonda malinconia, di estrazione letteraria leopardiana, schizzata di intensa dolcezza e innocente beltà.

Le parole sono congelate nell’anima devastata dal dolore, ma si sciolgono nella pagina poetica che trasuda di vita, di amori sconfitti, di speranze tradite, di nostalgiche rimembranze. E qui si legge il richiamo ad Ungaretti soprattutto in quei versi dove la parola si fa più essenziale e il canto si nutre di analogie.

Il mondo non era pronto ad accogliere la sua poesia, il suo canto di dolore, sordo com’era all’urlo di disperazione intrappolato tra i ghiacciai dell’anima. Antonia Pozzi era bisognosa di una carezza che la società, impreparata ad una tale urgenza emotiva e psicologica, non ha saputo donarle. E nel gelo dell’indifferenza (o forse vogliamo chiamarla inconsapevolezza), nella lacerazione emozionale, nelle sabbie mobili di una tristezza patologica paralizzante, moriva ogni sua traccia di speranza.

Le sue liriche, sorgenti di un cuore ancora palpitante di vita, sublimano le incomprensibili e imprescrutabili ragioni dell’essere. Sono delicate, composte, vòlte quasi a non volere scomporre l’ordine precostituito del mondo, incapace di ascoltare il suo male di vivere che ha trovato consolazione soltanto nella morte.

Il sorriso spento della sua gioventù inghiottita dalla voragine del malessere esistenziale, è pregnante in Novembre dove la tormentata stanchezza di vivere, seguita dal desiderio stremato di morire, è la prova di quanto la sua gracilità umbratile tenda a riscattarsi in un disperato e singhiozzante silenzio.

Le poesie della Pozzi, che si nutrono di toni intimi di carattere crepuscolare, al contempo però esercitano una fascinazione stregata. Questo potere attrattivo è dato principalmente dal fatto che chi legge questi versi si trova di fronte al tormento di una giovane anima alla ricerca del senso di se stessa nella vita, attraverso quesiti di vitale importanza legati al valore dell’esistenza e a quello della fine, interrogativi che da sempre l’uomo si pone.

La sua solitudine creativa, accesa da una grammatica cromatica molto forte, genera parole feconde di umanità per dare espressione all’inespresso o a ciò che è troppo doloroso per potersi dire.

Come disse l’italianista Maria Corti, “il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull’orlo degli abissi. Era un’ipersensibile, dalla dolce angoscia creativa, ma insieme una donna dal carattere forte e con una bella intelligenza filosofica; fu forse preda innocente di una paranoica censura paterna su vita e poesie. Senza dubbio fu in crisi con il chiuso ambiente religioso familiare. La terra lombarda amatissima, la natura di piante e fiumi la consolava certo più dei suoi simili”.

 

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