
Sulla linea di confine dove il passato e il presente si contendono lo spazio dell’anima poetica, le nuove muse celebrano il tramonto delle opere-mito, incarnazione dell’origine del viaggio poetico, e consacrano l’era degli uomini- mito, generatori di una parola fecondatrice e organizzatrice dell’essere.
Congestionato in un tempo che non è più, con i suoi eroi e con i suoi dèi, il mito si lascia morire e Socrate viene battezzato padre di una diversa ispirazione portavoce del logos.
E da quel momento nulla fu come prima.
La sua morte ha segnato l’esordio di un nuovo tempo dell’anima e, attraverso una discesa nel nulla, si assiste alla ri-nascita del genio poetico, di un sentimento umano che con il suo carico di gioie e di dolori, di vita e di morte, imbeve di sé non più il poema, ma il canto breve, non più l’opera, ma il frammento.
Tutta la poesia successiva muoverà i primi passi dal dàimon socratico per inaugurare la nuova stagione della modernità, della commedia in luogo della tragedia. E nella valle dell’esistenza il poeta dota di ali i suoi sogni popolati da angeli e da demoni, da soavi figure abitanti nel verde prato della vita e da arcigne vecchiette che affollano le caverne dell’Ade, la dimensione altra e complementare alla prima.
Le nuove muse di Salvatore Lo Bue occupano lo spazio intermedio tra una discesa all’inferno e un volo in paradiso, il luogo dove al poeta è concessa la vita, madre di ogni musa. Figli del dolore e dell’amore, i nuovi cantori si innalzano come aquile sulle vette più alte del firmamento per poi tramutare in parola la loro unica e sublime esperienza. Scendono nelle cavità più insidiose dei travagliati percorsi interiori, penetrano nelle pieghe più segrete dell’animo umano.
Ogni uomo-mito esprime la propria verità, nuovo padrone del giardino sacro, dimora delle nove figlie di Zeus e Mnemosine, pescatore nel misterioso mare dell’infinito.
E’ l’alba dell’ellenismo. L’uomo si trova proiettato in un mondo senza confini, assorbito da una cultura spesso portatrice di valori antitetici e alternativi rispetto a quelli a cui era stato educato. Dinanzi a questo universo sterminato e caotico, egli prova un misto di fascino e di sgomento, e se da un lato non può che sentirsi cittadino del mondo, dall’altro tende, anche per le mutate condizioni sociali e politiche, a chiudersi in se stesso e a cercare nella propria interiorità l’equilibrio perduto, sostituendo agli antichi valori collettivi, tipici della polis, quelli più legati alla sfera individuale: in tal modo cosmopolitismo e individualismo finiscono paradossalmente col coesistere in quanto manifestazioni, ad un tempo opposte e parallele, della stessa condizione spirituale. Soltanto tenendo conto di questo, si può ben comprendere il nuovo orizzonte poetico.
E così la musa sottile, concisa e limpida, espressiva e vivace, fa corrispondere all’ansiosa commozione e molteplicità di stati d’animo e pensieri, la varietà dei colori dell’espressione. Domina il bisogno intimo di mutamento e varietà. Ma l’occhio dell’Elicona si è chiuso per sempre sprofondando in un sonno eterno generatore di una poesia a cui mancherà il fascino del sublime, che lo Bue definirà a dovere “surrealismo mitico con effetti favolistici”, con il suo carico di minuzie cucite assieme al filo grossolano dei tormenti e dei valori umani. La prima delle nove muse, con la sua arte, ha cercato di presentare il mito tradizionale in modo barocco, accostandolo alla realtà della vita quotidiana; ha indossato le vesti dell’umorismo che culmina nel burlesco oppure nel grottesco, trasformando il mondo degli dèi in pura materia di esercitazione poetica. Alla sua natura intellettualmente imbrigliata doveva essere estranea l’estasi orfico- dionisiaca. Infatti, senza il mito, l’amore è narrato con distacco, senza concessione al romanticismo, rifuggendo dalle sbavature sentimentali, perseguendo una impersonale oggettività. Senza il mito, l’amore non desta più le tanto dolci quanto laceranti malinconie di un tempo; esso viene mantenuto in uno stato di sospensione che allieta l’otium senza eliminarne i benefici. Lo dimostra Teocrito.
La sua musa bucolica, pertanto, si fa culla di un amore che non è più passione, ma Natura, con i suoi giochi acustici, i suoi profumi, i suoi colori, i suoi silenzi. Questa perfetta architettura naturale trova la sua ragion d’essere nella percezione dell’anima.
Le nuove muse racconta, attraverso la penna attenta del suo autore, il destino dei versi che attendono di essere cantati dagli uomini-mito che, immersi in un universo del tutto temporale, tessono i fili di una nuova tela, ricamano il disegno del regno di Afrodite privo di tormenti e di struggenti nostalgie. Alla poesia è strappata la maschera divina. Essa assume sembianze umane. Semplicemente umane.
Lo spirito dell’uomo ha in sé la sua tomba temporanea ma da essa uscirà in un’ascesa annunziante la resurrezione. Per vagare. Ed errante è la musa di Apollonio, colui che per la prima volta scopre che ogni amore ha un prima e un poi, ha una sua storia, nella quale hanno importanza anche i particolari che a prima vista sembrerebbero insignificanti, e ne traccia l’analisi minuta. Non fu il cantore, ma colui che rappresentò l’amore con finezza e profondità psicologica, il suo lento sviluppo e le sue varie fasi. Medea è l’unica eroina e la sua figura prende luce dall’opacità di Giasone, disadattato al thumòs, non conosce né gli entusiasmi, né il temperamento, né la baldanza dell’eroe: vive, invece, in un limbo di mediocrità e di cautele, inghiottito da scrupoli e da ripensamenti che, se non paralizzano l’azione, ne frenano il dispiegarsi dinamico e travolgente. La crisi dell’eroe riflette le tendenze antieroiche di un’epoca che si riconosce piuttosto negli smarrimenti della psiche. Ed è proprio nei suoi più reconditi meandri che si insinua la sottigliezza del poeta. Se l’aedo omerico non esiste al di fuori del suo canto, ed anzi è il suo stesso canto, la musa errante fa sì che l’io di artefice del suo poeta sia distinto dalla materia che gli sta davanti; da quei gloriosi fatti degli uomini antichi ereditati da una tradizione che egli si è assunto l’onere di rinnovare, imprimendovi il sigillo della propria personalità.
Per lei la realtà dominante, e la sola autentica, è quella interiore: vengono indubbiamente accentuati i tratti solipsistici e la trascrizione di questa condizione psichica è il predominio del monologo. E così hanno corpo i fantasmi da cui Medea è tormentata, le ombre di eros, una forza irresistibile che la possiede totalmente e a cui ella si abbandona senza riserve, giungendo fino al tradimento del padre e all’uccisione del fratello; quest’ultima voluta e programmata con la fredda consapevolezza che si tratta dell’ultima di una serie di colpe commesse sotto la dettatura di un’ate accecante.
Giasone incarna la figura dell’”eroe” moderno: egli, campione di un nuovo odissismo, rifiuta ogni coinvolgimento emotivo che lo porterebbe alla crisi e all’autodistruzione, mantenendo un controllo che lo rende pallido di fronte alla passionalità di Medea. La simpatia di Lo Bue nei confronti di questa splendida figura femminile ci avvinghia con commozione alle sue ardenti pagine; con maestria l’autore pone in risalto gli ondeggiamenti del cuore umano e, con toccanti parole, ci narra come lievi pensieri virginei vincano l’idea della morte. Nella quiete della notte, divenuta teatro dell’affannosa veglia di Medea, in quel silenzio sospeso sull’infinito, la natura si anima e tra essa e l’uomo si instaurano sottili corrispondenze.
Il canto del poeta si innalza per incarnare la verità, mai univoca, sempre plurima, campo indecifrabile imbevuto di simboli, ed ogni simbolo rimanda alle adulazioni della vita o alle minacce della morte. Perché la natura delle cose è posseduta da un unico elemento, quello fisico, che con il suo deperimento trascina con sé ogni atomo dell’universo.
Così la musa pensante apre le porte alla riflessione sulla morte “cosmica”, cui è destinata ogni cosa. L’uomo approda all’amara verità che nell’eterna vicenda di aggregazione e disgregazione degli atomi, che risponde ad un criterio di equilibrio universale, tutto è destinato a perire, anche l’anima, composta da particelle finite. La paura della signora nera gela le azioni quotidiane, ustiona la mente, addenta l’uomo alla coscienza esiziale della fine. Quanto gravosa e faticosa è l’incombenza di thanatos sulla luce della vita! Ma la musa pensante ci riconduce al principio di ogni cosa. Nulla esiste prima dell’origine e nulla esiste dopo la fine. Tutto si dissolve: la sofferenza, la gioia, il cuore, la ragione, sono risucchiati dal Nulla eterno che tutto ingoia. Tra questi due estremi si erge, imperiosa, la vita con la sua sapienza guida e maestra, luce essa stessa di una poesia che deve irradiare le tenebre in cui giace l’umanità. Nella effimera quanto straordinaria porzione di esistenza che ci è data in usufrutto, in cui governa la bella Afrodite, genitrice di ogni cosa e da cui ogni cosa trae la propria linfa, recita l’uomo la sua più triste commedia; affannato com’è a gettare il suo seme in un campo fertile per lasciare una traccia, un’impronta della sua presenza sul palcoscenico della terra, per alimentare il suo desiderio di immortalità attraverso il suo frutto, in una struggente e fragile illusione. La poesia madre della musa pensante, promette pace e serenità. E’ vana la paura della morte. Se essa c’è, noi non ci siamo; se noi esistiamo, essa non c’è. E il miele della musa addolcisce il farmaco dell’umanità. E la sua poesia oscilla, allo stesso modo della vita, tra l’amore e la morte, in una danza terribile e attraente in cui l’uomo corre per la ossessiva necessità di occupare il tempo datogli a disposizione. Alla fine della corsa, soltanto la solitudine nutrirà il suo funesto canto. Un canto, il suo, che sarà eternato dalla poesia. Perché non tutto muore. Il tempo è immortalato nei versi ispirati dalla musa sapiente, la storia disegnata sulla pagina bianca della vita, le stelle immobili a ricamare il tessuto del cielo. La poesia non è intrappolata nelle reti del tempo, non è inghiottita dal silenzio eterno. E così l’uomo-mito si sente in diritto di cantare anche di se stesso e della propria immortalità; e la sua musa ri- fonda, con gusto laico, il principio dell’essenza umana. Il valore della vita è affidato al piacere del presente: lo rende possibile l’attitudine dell’uomo di affrancarsi dalle paure, dall’ansia del domani, ma nessuna divinità lo garantisce.
E’ possibile dare un senso alla vita attraverso una affascinante partita che si gioca su questa terra, in questo luminoso mistero che si propaga sul buio del tempo. La musa sapiente, senza promesse ultraterrene, senza invasamento irrazionale, senza eccitazione dionisiaca, propone l’autarcheia per sedurre chi cerca disperatamente un valore da attribuire alla vita dissacrata dall’effimero.
L’accento viene posto sull’attimo, che come un lampo si brucia nel suo stesso apparire. Ogni momento della vita è come un brivido. Irripetibile nella sua transitorietà. Sconvolgente nella sua fatalità. Perché il cammino non è facile quando si è coscienti che tutto è un falso equilibrio, un ordine costruito sopra il caos. Unico sollievo, sola medicina ai turbamenti che affliggono l’uomo, è la musa innamorata, che illude e disillude, ferisce e lenisce, dà la vita e la toglie. Nel suo giardino ci si abbandona all’amore, passando dalla gioia più esaltante alla disperazione più cupa, in un’alternanza di incanto e disincanto, fiducia e delusione. Eros, con i suoi tradimenti e le sue infedeltà, ferì l’animo sensibile del poeta che visse il dramma interiore di chi, pur soffrendo, non seppe rinunciare ad onorare il suo tempio. Ma quando l’amore diventa seduzione, la musa da innamorata diventa ruffiana, giocosa; e si cala il sipario sulla genuinità poetica, sull’autenticità dei sentimenti. Il pianto della poesia nasce dalla miseria del suo artefice. E il moto ondulatorio dell’essere, il plettro che fa vibrare le corde dell’anima, diviene lusus, gioco intellettuale, divertimento galante.
Lo Bue, servendosi di un arguto ed elegante senso critico, ha colto l’uomo-mito elegiaco nella sua incapacità a tenere alta la fiamma della passione; la sua musa giocosa lo ha nutrito della mediocrità del cuore. Le parole d’amore dettate dall’animosità del sentimento, come sussurri di vento, si piegano al servizio della lussuria, si colorano delle dolci note della libidine erotica.
L’elegia conosce solo una relazione d’amore “irregolare”, calata nell’ambiente galante cittadino, in quella società colta e raffinata in cui possono figurare intellettuali, donne libere e uomini di potere. Questo tipo di amore è destinato a vivere conflittualità perché la domina concede al poeta una felicità sempre precaria, sottratta ai diritti consolidati del vir. La vita non è più la genesi della letteratura, ma quest’ultima si genera da se stessa. Non vi è nessuna musa drogata ad esser preda del furor dionisiaco; soltanto la tremenda musa giocosa, nella beffa delle sue arti fittizie, tende all’amplesso, perché suo ultimo fine è possedere. E allora la poesia d’amore si muove all’interno di una perfetta architettura estetica in cui irride la spazio della poesia tragica.
Con la musa operaia, i canti godono nuovamente della spontaneità dei gesti ma non sarà l’uomo ad occupare la posizione centrale; protagonisti sono campi, piante, animali: una natura viva, palpitante, umanizzata negli atteggiamenti, persino nei sentimenti. Una natura creata dal dio, inviolabile, di cui prendersi cura con il lavoro della coltura. Perché il lavoro è libertà e la terra è il grembo che ospita le fatiche del bisogno dell’uomo. Ogni cura non è però sufficiente a fronteggiare le insidie che si celano nel suo stesso apparato. Giove, dopo la felice ma inerte età dell’oro, volle rendere difficile l’agricoltura e fece sì che l’uomo, spinto dalla necessità e dall’esperienza, inventasse e affinasse le varie arti.
Cerere stessa insegnò ai mortali a dissodare il terreno e a difendersi dalle avversità naturali. E la prima costruzione fu l’aratro. Eco della musa verde, quella operaia è portatrice di un malessere, di un affanno scaturito dal rimpianto del tempo perduto, dalla consapevolezza che presto l’universo presente volgerà al termine e che la guerra segnerà per sempre il percorso dell’uomo romano.
Ma alla fine della guerra, un nuovo ciclo avrà inizio, una nuova porta si aprirà, alla soglia della quale si erge, in tutta la sua maestà, la musa mistica. In pagine di densa efficacia narrativa, Lo Bue dipana il filo della matassa poetica, dove il dramma è consumato nella sottomissione al dovere; e lo spazio chiuso in cui viene costretto è quello dell’io riflesso che non può portarsi al di fuori; altrimenti Enea tradirebbe la sua missione, sarebbe personaggio ma non protagonista epico.
Ad Enea manca il gesto apertamente patetico e si accentua, invece, l’isolamento riflessivo. Interiorizzato, il conflitto si fa esitazione e dubbio. Il poeta non ci narra un cupo fluttuare di sentimenti, ma lascia che sia Didone ad esprimerli con il massimo dell’effetto drammatico. Enea resta inflessibile; sopraggiungono orribili presagi di ogni genere, e Didone decide di morire, tormentata da pensieri oscillanti e angosciosi, in quella magica e oscura notte insonne. Le sue lacrime sono sacre, la sua dimensione è tragica, il suo amore è totale, non si risparmia. Perché è preferibile una dolce morte alla negazione di un cuore amato, la follia alla fredda e spietata logica della ragione.
Gli uomini- mito percorsero il nuovo sentiero della poesia, sprofondando negli abissi dell’anima, scrutando ogni suo sussulto, cogliendo ogni sua piaga. Volsero il loro sguardo sull’ignoto dell’esistenza umana, si riflessero nello specchio doppio della loro arte. Loro fedeli compagne furono le nuove muse, ispiratrici di una verità altra, motrici del vento creatore della poesia, atto misterioso in quanto essenza di vita. Tramontata l’era del mito e della tragedia, la nuova stagione si apre con il risveglio delle nove dee, il cui canto allevia le preoccupazioni dei mortali; ed ecco che lo scorrere armonioso di un ruscello, il brontolio del tuono, lo scroscio di pioggia si fanno arte, musica, colmando il vuoto che come un vortice si apre nella vita dell’uomo.
Salvatore Lo Bue accompagna magistralmente i suoi lettori lungo il nuovo viaggio che l’uomo-mito intraprende nel mare dell’anima; la sua penna incide sul foglio la nuova origine, con uno stile squisitamente raffinato dosando grazia ed eleganza. La sua scrittura non è inanimata, involucro del nulla; le sue pagine, cavalcando le onde del tempo, trasudano di vita e di poesia.
Perché Maestra è la vita, Maestro è il poeta. La Vita nella sua perfetta imperfezione, il Poeta nella sua divina umanità.
