La farfallina color zafferano che veniva ogni giorno a trovarmi al caffè, sulla piazza di Dinard, e mi portava (così mi pareva) tue notizie, sarà più tornata, dopo la mia partenza, in quella piazzetta fredda e ventosa? Era improbabile che l’algida estate bretone suscitasse dai verzieri intirizziti tante scintille tutte eguali, tutte dello stesso colore. Forse avevo incontrato non le farfalle ma la farfalla di Dinard e il punto da risolvere era se la mattutina visitatrice venisse proprio per me, se trascurasse deliberatamente gli altri caffè perché nel mio (alle Cornouailles) c’ero io o se quell’angolino fosse semplicemente inscritto in un suo meccanico itinerario quotidiano. Passeggiata mattutina, insomma, o messaggio segreto? Per risolvere il dubbio, la vigilia del ritorno, decisi di lasciare un buon pourboire alla cameriera, e insieme il mio indirizzo in Italia. Avrebbe dovuto scrivermi un sì o un no; se la visitatrice si era rifatta viva dopo la mia partenza o se non s’era più lasciata vedere. Attesi dunque che la farfalletta si posasse su un vaso di fiori ed estraendo un foglio da cento, un pezzetto di carta e un lapis chiamai la ragazza. In un francese più esitante del solito, balbettando, spiegai il caso; non tutto il caso, ma una parte. Ero un entomologo dilettante, volevo sapere se la farfalla sarebbe tornata ancora, fino a quando poteva durarla con quel freddo. Poi tacqui, sudato e atterrito. “Un papillon? Un papillon jaune?” disse la leggiadra Filli sgranando un par d’occhi alla Greuze. “Su quel vaso? Ma io non vedo nulla. Guardi meglio. Merci bien, Monsieur”. Intascò il foglio da cento e si allontanò reggendo un caffè filtro. Curvai la testa e quando la rialzai vidi che sul vaso delle dalie la farfalla non c’era più.
Eugenio Montale, «Farfalla di Dinard», 1956
