
Un racconto autobiografico senza pretese letterarie, quello scritto da Susanna Kaysen, che accompagna il lettore attraverso una ricostruzione coraggiosa e, a tratti, leggera della propria esperienza in una clinica psichiatrica. Infatti, la scrittrice, dopo una visita superficiale da parte di un medico che nulla sapeva di lei, all’età di 18 anni viene mandata da questi al Mc Lean Hospital, già noto per aver ospitato personaggi famosi del calibro di Ray Charles e Sylvia Plath.
E’ difficile comprendere una mente “diversa” e, soprattutto, risulta arduo ammettere che il sottile filo che separa i cosiddetti sani dai folli può spezzarsi senza preavviso. La prospettiva del mondo cambia a seconda se lo si vede dall’una o dall’altra parte del filo. E cosi’ bastano pochi attimi per saltare al di là del limite e approdare nell’universo parallelo della mente, come lo definisce la stessa Kaysen. Un mondo altro dove le leggi della logica sono ribaltate, dove tutto ha una ragion d’essere.
Nell’universo parallelo le leggi della fisica sono sospese. Non necessariamente ciò che sale scende, un corpo in stato di quiete non tende a rimanerci, e non è detto che ogni azione provochi una reazione uguale e contraria. Anche il tempo va diversamente. Può avere andamento concentrico, scorrere all’incontrario, saltellare dal presente al passato. La disposizione stessa delle molecole è fluida: i tavoli possono diventare orologi; le facce, fiori.
Come appare evidente dalla narrazione, il dramma del disagio mentale è trattato con grande controllo emotivo che, in qualche passo, cede il posto ingenuamente ad un tono che oscilla tra il serio e il faceto, tra il mordace e il canzonatorio, che arriva fino all’essenza del caos. La scrittrice indaga senza filtri le cause che conducono una persona al suicidio e lo fa sia attraverso il racconto di una compagna della clinica che si era data fuoco, sia tramite un’analisi lucida della propria storia, in cui più volte emerge la volontà di porre fine alla propria esistenza.
Il suicidio è una forma di omicidio: omicidio premeditato. Non lo fai la prima volta che ti passa per la testa. Ti ci devi abituare. E ti servono mezzo, occasione, e movente. Un suicidio riuscito esige buona organizzazione e sangue freddo, cose solitamente incompatibili con lo stato d’animo suicida.
L’importante è coltivare il distacco.
Però, risulta chiaro dalle sue stesse dichiarazioni che l’idea del suicidio sia rigettata indietro fino a suscitarle sentimenti di odio verso quella parte di sé che l’aveva caldeggiata.
In realtà, era solo una parte di me stessa che volevo uccidere: quella che voleva uccidersi, che mi tirava a forza nel dilemma-suicidio e che faceva di ogni finestra, attrezzo da cucina e stazione di metropolitana la prova generale di una tragedia.
Le parole della Kaysen fanno riflettere. Difatti, di fronte alla condizione di malessere psichico, i cosiddetti sani hanno la necessità di delimitare la linea di confine tra la malattia e la sanità, ponendosi la questione della differenza tra il matto e il savio. “E questo spiega l’utilità di un marchio generale”. Perchè la definizione di pazzo, che si affibbia alla persona con comportamenti strani, diversi, automaticamente salva l’altro dalla sua onta. Le domande che scaturiscono al cospetto di colui che ha vissuto un’esperienza in una clinica psichiatrica (“Cosa avevi?”, “Quanto sei rimasta in clinica”) marcano il “bisogno di conoscere i dettagli della pazzia, in modo da convincersi di non essere pazzo”.
Una questione delicata, questa, che solleva problematiche etico-sociali relative alle etichette che bollano un individuo come folle, depresso, schizofrenico, e che ne delimitano il raggio d’azione nella società. Ciò che non si conosce fa paura e viene ostracizzato senza tenere conto delle molteplici declinazioni emotive (perché anche nell’esperienza psicotica si vivono le emozioni) che vengono ferite in modo indelebile. Emozioni estremizzate vissute in un territorio, quello della follia, “dove le false impressioni hanno tutte le caratteristiche della realtà”. Lo esprime bene la scrittrice che mette in risalto quanto il male oscuro, quello dell’anima, con tutte le sue articolazioni semantiche, porti inevitabilmente alla solitudine, espressione dolorosa di una radicale perdita di contatto e di comunicazione con gli altri.
Difficile, dunque, gestire un universo che viaggia parallelamente a quello “normale”, in cui la pazzia è spesso una protezione dal mondo, dalla vita e, talvolta, anche da sé stessi. Una regione che la Kaysen racconta con semplicità, senza compassione né pietismo ma che lascia nel lettore un senso di sofferenza e tristezza.
Nell’ultimo capitolo del libro, la scrittrice sente l’esigenza di spiegare l’origine del titolo che incorona il racconto. Il motivo di tale intestazione risale, infatti, ad un quadro ,“La ragazza interrotta mentre suona”, che la protagonista e voce narrante ha avuto modo di ammirare al Frick Collection di New York, dove si trovava in visita. In quel quadro la Kaysen ha rivisto se stessa nella sua fragilità e nella sua necessità di fissare il momento in cui la sua vita normale si è interrotta per dare voce all’altra parte della medaglia psichica che, in fin dei conti, fa parte di ognuno di noi.
“Stavolta lessi il titolo del quadro: Ragazza interrotta mentre suona.
Interrotta mente suona: com’era stata la mia vita, interrotta nella musica dei miei diciassette anni, com’era stata la sua vita, strappata e fissata su tela: un momento reso immobile, per tutti gli altri momenti, qualsiasi cosa fossero o avrebbero potuto essere.

[…] ne “Il dormiveglia” di Giuseppe Bonaviri (recensione di Maresa Schembri) e ancora in Dietro le sbarre della prigionia psichica. La ragazza interrotta di Susanna Kaysen. (Recensione di M…. A ciò si aggiunga anche la precisa e puntuale recensione Un titolo promettente: “Il colibrì” […]
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[…] Dietro le sbarre della prigionia psichica. La ragazza interrotta di Susanna Kaysen. (Recensione di M… L’adolescenza patologica in “Un giorno questo dolore ti sarà utile” di Cameron (recensione di Maresa Schembri). Pillola di saggistica: “Il narcisismo” di Alexander Lowen. […]
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