
Una personalità eccentrica e provocatoria come quella del drammaturgo, attore, saggista e regista teatrale francese Antonin Artaud non poteva certamente risparmiarsi scrivendo del genio della pittura olandese van Gogh. Non sarebbe stato nelle sue corde usare toni miti e uno stile aggraziato nel prendere le difese del pittore; non avrebbe rispettato la sua natura di ostentato sobillatore se non avesse usato la sua ferocia verbale nel mettere in luce il suo valore umano e artistico. E lo ha fatto in linea col suo pensiero più verace in un saggio intitolato Van Gogh. Il suicidato della società, edito da Adelphi, stampato per la prima volta nel 1947.
L’opera è un’aspra risposta all’articolo del dottor Beer, intitolato Sa folie, pubblicato sull’ultima pagina del settimanale “Art” il 31 Gennaio 1947, interamente dedicato a van Gogh e alla mostra delle sue opere al museo dell’Orangerie. Questa pubblicazione ha scatenato un feroce dibattito al quale ha preso parte lo stesso Artaud che contestava, ponendosi così in una posizione diametralmente opposta a quella dello psichiatra, la diagnosi clinica di follia che affliggeva il pittore olandese. In realtà, ciò che inequivocabilmente sosteneva il drammaturgo francese era l’accusa netta alla società di aver spinto van Gogh al suicidio, impedendogli di rivelare scomode verità.
Artaud,l’anticonformista per antonomasia, si riscopre nel pittore in quanto altro rispetto alla società, in quanto abitante un altrove che esula quella “normalità” che ci viene imposta dal sistema sociale, il quale si appella ad un pericoloso principio di normalizzazione o di identificazione che finisce col ghettizzare ciò che non vi si attiene.
Van Gogh non si è suicidato. E’ la società che “per punirlo di essersi strappato ad essa, lo suicidò”. Ma prima di morire, Vincent si abbandona al delirio come ad una forma di malattia del pensare, in cui nascondersi per sfuggire il più possibile dalle strozzature della vita.
C’è in ogni demente un genio incompreso: l’idea che gli brillava nella testa sgomentò; e solo nel delirio ha potuto trovare una via d’uscita agli strangolamenti che la vita gli aveva predisposto.
Specchio del suo stesso disagio, la sua pittura diviene in tal modo una testimonianza fastidiosa di tutto ciò che esce fuori dallo schema. Lo scopo di Artaud, infatti, è quello di riscattare la sua arte e, attraverso essa, se stesso. Per fare ciò, il drammaturgo francese è radicale. Lui che ha il gusto per la provocazione e per lo scandalo, non si accontenta di prendere le difese di van Gogh ma va oltre. Condanna l’intera società fatta di omologazione, priva di estro creativo e inventivo, che costituisce una sorta di crimine che silenzia l’espressività. Di questa collettività fa parte il sistema psichiatrico, responsabile dell’alienazione dei folli, invidioso della loro genialità.
[…] c’è in ogni psichiatra vivente un atavismo sordido e ripugnante che gli fa vedere in ogni artista, in ogni genio che gli sta davanti, un nemico.
Questo saggio vuole essere una riabilitazione di van Gogh non soltanto in termini artistici ma, soprattutto, umani. Ed è esattamente quella pietas umana che è mancata ad Artaud, vittima anche lui di un delirio mistico, di una psicosi che lo ha marchiato per tutta la vita. Il drammaturgo francese ha riversato nell’evento scenico il significato del suo mondo attraverso un’idea di teatro integrale, fondando gesto, movimento, luce e parola. La sua scrittura è essa stessa teatro di una aspra lotta tra l’incompletezza formale e l’introspezione, causata da una spaventosa malattia dello spirito che lo abbandonava in balia di un pensiero intermittente. Invan Gogh ha proiettato se stesso. Difendendo il pittore, Artaud ha cercato di proteggere la sua stessa vita, la sua stessa arte. Schierandosi dalla parte di un incompreso, di un emarginato, di un uomo che usciva di notte per dipingere alla luce di una corona di candele fissata sul cappello, di un ossessionato da idee di auto castrazione, di un signore che si è mozzato il lobo di un orecchio, Artaud non ha fatto altro che elogiare con toni accesi l’essere forsennati come una possibilità di esistere, un modo altro per essere nel mondo. E quell’infinito che Vincent ha cercato nell’arte come respiro verso l’eterno, come balsamo che lenisce il dolore e lo scherno della vita, esattamente quel costante anelare all’immenso lui si è visto castrare dalla massa, incapace di individuarne il genio.
Perchè non è stato a forza di cercare l’infinito che van Gogh è morto,
che è stato costretto a soffocare di miseria e asfissia,
è stato a forza di vederselo rifiutare dalla turba di tutti quelli che, quando ancora era in vita, credevano di possedere l’infinito contro di lui; e Van Gogh avrebbe potuto trovare abbastanza infinito da vivere per tutta la vita se la coscienza bestiale della massa non avesse voluto appropriarsene per nutrire le proprie orge, che non hanno mai avuto niente a che vedere con la pittura o con la poesia.
E ancora:
Van Gogh non è morto per uno stato di delirio proprio ma perché è stato corporalmente il campo di un problema attorno al quale fin dalle origini si dibatte lo spirito iniquo di questa umanità, quella del predominio della carne sullo spirito o del corpo sulla carne, o dello spirito sul corpo. E dov’è in questo delirio il posto dell’io? Van Gogh cercò il suo per tutta la vita con energia e con una determinazione strana, e non si è suicidato in un impeto di pazzia, nel panico di non farcela, ma invece ce l’aveva appena fatta e aveva saputo chi era quando la coscienza generale della società per punirlo di essersi strappato ad essa lo suicidò.
Un’acre e imbarazzante sincerità fa cadere il velo dell’ipocrisia, del perbenismo, della falsità di un mondo che ostracizza il coraggio di chi alza la voce, di chi è fuori dal coro, di chi mette in discussione il sistema, di chi ha la forza e la libertà di dare spazio alla parola dell’anima. Artaud perora la causa di van Gogh e con lui quella di coloro che si spogliano delle sovrastrutture della ragione, di ogni qualunquismo per essere semplicemente ciò che sono. E forse quella che definiamo follia non è anche questo? Non significa prendere posizione contro un sistema che ci piega all’imperialismo razionalistico soffocando il respiro tendente ad un altrove che non ha bisogno di confini?
Van Gogh era una di quelle nature di una lucidità superiore che permette loro in ogni circostanza di vedere più lontano, infinitamente e pericolosamente più lontano del reale immediato e apparente dei fatti.
E che sono perciò piene di intuizioni, di premonizioni, di prescienze, di divinazioni, che hanno sempre costituito un disagio incombente per la coscienza d’ogni giorno, dico la coscienza volgare e comune d’ogni giorno, la quale da un secolo si è inventata la psichiatria come difesa.
Artaud afferma che la pittura di van Gogh custodisce qualcosa che non è possibile comprendere fino in fondo, qualcosa che sovverte lo status quo, che confonde la percezione della società fino al punto di uniformare l’elemento spaesante insidiatosi in essa al fine di condurlo all’auto distruzione, alla messa a tacere della sua arte che è viva, fervente, geniale. Così, per proteggere la sua logica dissennata, ha convenuto lecito bollare come pazzo il genio van Gogh.
Si tratta di un visionario che parla di un altro visionario e lo fa con un vigore espressivo talvolta sconcertante. Questo saggio è un latrato ferino di un uomo, Artaud, che si sente incalzato, che avverte su di sé l’occhio impietoso di una società che lo vorrebbe silente, obbediente; è un urlo che testimonia il suo ultimo spasimo di dolore; è il coraggio folle di chi rivela la propria verità, esibendo il suo cuore contratto, bistrattato, umiliato che della sua linfa ha macchiato il tempo.
Antonin Artaud, attraverso questo rigurgito di bile, ha voluto espletare un’azione purificatoria, un disperato tentativo di affrancare dalla potenza putrida del male e della schiavitù sociale lo spirito di Vincent, “il più pittore dei pittori”. E liberando lui, avrebbe voluto condonare anche se stesso.
Un giorno la pittura di van Gogh armata e di febbre e di buona salute, ritornerà per scagliare in aria la polvere di un mondo in gabbia che il suo cuore non aveva potuto sopportare.

[…] abbiamo pubblicato varie recensioni che hanno toccato temi diversi come quello artistico in Van Gogh: suicida o suicidato? L’interpretazione parossistica di Antonin Artaud in “Van Gogh. Il… e in L’ esistenza come parafrasi di morte. La vita assassina di Fèlix Vallotton (recensione di […]
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