L’esistenza come parafrasi di morte. La vita assassina di Fèlix Vallotton (recensione di Maresa Schembri).

Vissuto tra la prima metà dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, Vallotton è stato un noto pittore svizzero apprezzato soprattutto per i suoi tramonti e per l’uso geniale dei colori. Ma ben pochi sanno che, oltre all’arte, si è dedicato anche alla letteratura, scrivendo tre romanzi, tra cui La vita assassina del 1907, pubblicato in Italia da Adelphi.

Protagonista è Jacques Verdier che racconta in prima persona la sua biografia, avviata con l’infanzia fino al trasferimento a Parigi, dove diventa un critico d’arte, circondato da persone che, con diversi gradi di interesse, hanno popolato tristemente le sue giornate. Ma fin qui nulla di particolare. Anzi, l’azione è piatta, il personaggio non ha ideali né entusiasmi, le relazioni che intrattiene non spiccano per qualche singolare peculiarità. Ciò che rende inconsueto il racconto è il tetro sottofondo teatro dei più nefasti avvenimenti di cui restano vittime coloro i quali, malauguratamente, entrano in contatto con Verdier. 

Sembra, infatti, che Vallotton abbia creato un soggetto che prolifica involontariamente il male. Il primo episodio disgraziato riguarda l’amico di Verdier che, raggiunto dall’ombra di Jacques, scivola e si spacca il cranio, addebitandone la colpa proprio a lui, sostenendo di essere stato spinto dalla sua mano. A seguire si legge l’incidente capitato all’incisore Hubertin, al quale il protagonista doveva consegnare la posta; si è spaventato a tal punto per la sua inaspettata comparsa da conficcarsi un bulino nell’osso e dopo pochi giorni morì. Poi il racconto della sua infanzia culmina con la sciagura del piccolo Musso, a cui Verdier aveva dato dei colori per ridipingere la sua gabbia, non sapendo però che erano velenosi e, perciò, ne provocò in tal modo la dipartita.

A questo punto la prima parte della sua storia finisce con la decisione di partire per Parigi alla ricerca di una anelata tranquillità, lontano dalla scena del misfatto.

Scelsi senza altro motivo una professione che mi allontanasse per sempre da quei luoghi dove già più di una volta avevo dato la morte.

Scelsi senza altro motivo una professione che mi allontanasse per sempre da quei luoghi dove già più di una volta avevo dato la mort

Ed è proprio a Parigi che si accosta all’arte e conosce Darnac, grazie al quale comincia a lavorare presso un giornale diretto dal signor Montessac. Conosciuta la moglie di quest’ultimo, ne resta attratto e forse in queste pagine si registrano gli unici momenti, quelli che lo vedono in contatto con la signora, in cui traspare una debolezza umana in Verdier. Ma, a ben guardare, questa si rivela un’ossessione che non porta a nulla di buono. Infatti, in seguito alla morte del padre in un manicomio; a quella della modella Jeanne dopo un terribile incidente in cui, nel grossolano tentativo di aiutarla a scendere dal tavolo su cui posava, la fece cadere sopra una stufa rovente; a quella della sua stessa amata in un imprevisto con la carrozza; successivamente a tutte queste vicissitudini, il racconto si fa cornice dell’ultima terribile catastrofe concretizzata nel suicidio stesso del protagonista. 

Tutti questi episodi, marcati dalla fatalità, strangolano la vita di Verdier rendendogliela insopportabile e piegandola ad una legge non scritta di inevitabili eccidi. Un’ironia sinistra innerva il romanzo, il cui paradosso consiste nella inconsapevolezza dei personaggi investiti dal flusso della tragicità, da questa aurea impietosa portatrice di morte. Soltanto Verdier e il lettore ne sono coscienti. 

Contavo dunque un’altra vittima… nemmeno per un attimo, infatti, dubitai che quella disgrazia non fosse dovuta al mio fatale potere, e quella certezza mi toglieva la ragione. La funebre lista si allungava; inconsciamente evocai quel martirologio, e dai limbi in cui dormiva il loro ricordo risorsero pallide figure.

Vallotton ci consegna un racconto realisticamente graffiante, in cui la presentazione degli ambienti, degli oggetti e dei personaggi è filtrata attraverso gli occhi del protagonista che li coglie come un riflesso indiretto del proprio essere. E’ come se ci fosse un occulto segreto che aleggia nei meandri della narrazione, un cavernoso mistero che è il filo rosso di tutto il romanzo, determinandone le sorti. La sua scrittura è un misto di realismo e di grottesco, di stordimento e consapevolezza, in cui la parola diventa la depositaria infelice della decadenza. Il pittore imbastisce dei discorsi che hanno come nucleo ciò che è ingiurioso e irriverente. E lo fa servendosi della penna come di un pennello per creare un effetto scioccante in cui occultare il presagio dell’invisibile. Sotto la superficie degli eventi si cela l’incredibile veridicità de La vita assassina, con un gioco metafisico di pitture volto ad abbracciare in un tenebroso senso della percezione ogni raffigurazione del cosmo.

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