
Dante si mette in viaggio per l’aldilà nella primavera del 1300, la notte del venerdì santo (qualcuno dice il 25 marzo, altri il 7 aprile). Sceglie questa data perché è la più solenne della sua vita.
Il cambio di secolo appare una svolta della storia. Si celebra il primo Giubileo, indetto da un Papa che Dante disprezza, in una città, Roma, che definisce spietatamente il luogo “dove Cristo tutto dì si merca”, dove tutto il giorno si fa mercato di Cristo; eppure da Roma è attratto, la considera il centro della vicenda umana, la venera non come un agglomerato di case e di strade ma come un’Idea, una patria morale.
Dante chiarisce subito che non parla soltanto di sé. Il viaggio comincia “nel mezzo del cammin di nostra vita”, dove la parole chiave è “nostra”. Dante sta parlando anche di noi. Suoi lettori, suoi simili, suoi compatrioti. La sua storia è la nostra. Ci interessa, ci riguarda. Sentiamo Dante talmente vicino che non lo chiamiamo per cognome, come tutti gli altri scrittori, ma per nome, anzi per diminutivo (si chiamava in realtà Durante, forse come il nonno materno). Il suo è un viaggio nella profondità di noi stessi.
Aldo Cazzullo, A riveder le stelle.
