L’affascinante epifania dell’irreale in «La stanza sull’acqua» di Roberto Pazzi 

di Gerardo Passannante

Roberto Pazzi non ha bisogno di presentazioni. Affermatosi fin dal suo esordio narrativo nel 1985, con Cercando l’imperatore, e ora tradotto in 26 lingue, autore di romanzi storici, col tempo non ha mancato di avvicinarsi anche a problemi di attualità e spesso scottanti, servendosi di una lingua rigorosa che non penalizza però la sua sostanziale componente visionaria, che lo porta a diffidare della realtà, per riproporla nella sua consistenza fantastica. Come ben dimostra questa La stanza sull’acqua del 1991, ripubblicato ora da La Nave di Teseo, e che dice bene come la Storia, manipolata con licenza poetica da una fervida e audace creatività, possa essere reinventata, con risultati di innegabile suggestione. 

Confermando la linea fantasti­ca dell’esordio, così poco battuta dai nostri narratori, la vicenda di La stanza sull’acqua si apre con una nave bianca che a ritroso solca il Nilo, dall’Egitto verso l’Etiopia, con a bordo Cesa­rione, figlio di Cesare e Cleopatra, in fuga dalla morte decretata per lui da Ottavio, ormai padrone di Roma. Lo accompagnano, tra lugubri pre­sagi, una nutrice, un danzatore, un flautista, un eunuco, un precettore, un astronomo, uno stratega, diver­samente distribuiti tra aiutanti e traditori, ma tutti imprevedibilmen­te scavalcati nelle loro funzioni da eventi inaspettati. 

Eventi che preci­pitano allorché, scendendo il Nilo in senso opposto, alla nave bianca si fa incontro una nave significati­vamente nera, che trasporta Afra, fi­glia del re d’Etiopia: che, come Ce­sarione cerca salvezza in Etiopia, a sua volta la cerca specularmente in Egitto. Accomunati dal medesimo sentore di fine, attraverso un audace scambio di identità consentito dal­la loro straordinaria somiglianza, i due giovani fanno allora un estremo tentativo per sottrarsi alla condan­na, ascoltando l’irrazionale voce del cuore. La cui legge porta tutti i naviganti, amici e nemici, a sco­prirsi imbarcati in un tragitto che è anche una resa di conti con i propri demoni interiori: se persino l’astro­nomo Sosigene, che pure riesce a tracciare il moto degli astri, si ar­rende all’impossibilità di decifrare le passioni. 

E così Lania, la nutrice violen­tata in gioventù, solo nel torbido abbraccio con Cesarione rinviene la sua irrelata identità di madre; Are­ta, testimone della decapitazione di Pompeo, si scopre divorato dal doppio tormento per Cleopatra e per la gloria; il cospiratore Rodone per gelosia giunge inaspettatamente al suicidio; l’eunuco Poro si strugge per patetico bisogno d’amore; Esra, madre di Afra e sorellastra di Cle­opatra, fonde in Cesarione le larve di un figlio e di un marito, dopo che Afra stessa ha aperto col cugino la via dell’incesto. Ecco allora che la stanza sull’acqua, oltre che itinera­rio a ritroso della memoria, in cui ognuno cerca di esorcizzare i fan­tasmi privati, apre il varco euristico verso la comprensione di quanto la fantasia conti più della realtà, sotto­lineata dal diffuso desiderio di sva­nire, per non vedere il ritorno delle stesse cose, e liberarsi finalmente dall’«incubo della storia». 

Sì, perché se gli dèi, vincolati all’immortalità, possono credere che la felicità appartenga al tran­seunte, ignorando la con­danna degli uomini al sopruso del “nome” e di una Storia risolta nel­la crudeltà del potere, Cesarione e Afra, al contrario, subito si ricono­scono come due solitudini trascina­te da una forza ben più persuasiva. E desiderosi di sfuggire al turbine del nulla, che innalza e travolge come una meteora persino imperi e civiltà, tentano di evadere dalle maglie della Storia verso il tempo della felicità, per annullarsi, senza io e senza nome, nell’acronica du­rata del mito. 

Con l’iniziale proposito di salva­re almeno uno dei due, essi ricorro­no allora allo scambio di persona: per cui l’anello contenente il veleno, da Cleopatra consegnato a Cesarione per la soluzione estrema, da filtro di annientamento si fa vei­colo di una «morte liberatrice», che dalla vita «inautentica» traghetta verso quella «autentica» dell’ideale; e in beffa a chi «crede che la realtà sia quella che si vede», schiude una prospettiva antitetica ma più reale di quella storica. Così Cesarione prende vita proprio nel momento in cui scompare. Così Afra, la donna fantasma inseguita e cercata, la donna sognata e bramata, la metà complementare, salda l’an­tica scissione dell’androgino nel «tu sei me», e muore per risorgere persino nella mente di Ottavio, che confusamente ne scorge i tratti nel­la moglie Livia. E così si consuma il sortilegio per cui la presenza con­siste nell’assenza, gli spettri sono più consistenti della materia, e le vittime, in definitiva, trionfano sui vincitori. 

La stanza sull’acqua: un ro­manzo affascinante sull’epifania dell’irreale; e che, segnando la ri­scossa della fantasia sulla cronaca, mi pare che agevolmente si pre­sterebbe a un adattamento teatrale, con l’ambiguità che è propria della scena. Come suggeriscono anche attori invisibili che Pazzi abilmen­te cita tra le righe, e che hanno la voce di Joyce e Proust, di Kavafis e Platone, di Wagner e Verdi, di Eliot e Borges. Al punto che, in questo depistante rimbalzo tra vero e falso, solo la gatta Amaltea sembra getta­re un occhio terso sulla farsa degli ominidi.

Impossibile entrare nelle com­plesse stratificazioni di un testo così lontano dalle epidermiche storielle di consumo, a ricordarci che la narrativa non è fatta solo di microstorie, inchieste, o prurigino­se ricette quotidiane, in osservanza all’esile minimalismo diaristico dei nostri tempi. Ne La stanza sull’acqua, invece, noi incontriamo personaggi con­torti, rosi da un’inquietudine mira­bilmente restituita da una scrittura densa e lucida, con tratti di fine lirismo. Con audacia visionaria, Pazzi «manipola» la Storia, piegan­dola alle esigenze narrative in nome dei sacrosanti diritti della fantasia, e la mette al servizio di un sapien­te strumento compositivo e di una lucida intelligenza poetica, per cui alla fine non si sa più quale sia la verità e quale la menzogna. Ed è proprio mediante questo ribalta­mento che si svela la volontà dis­sacratrice di Pazzi, che, sospettoso dell’evidenza e fortemente critico nei confronti del potere, sia politico che religioso, privilegia un’indagi­ne controcorrente, irregolare, irrive­rente. Poiché la sua operazione non tende ad evadere dalla realtà, quan­to piuttosto a perseguire una verità più profonda della «vulgata». Il che spiega perché questo romanzo non scaturisce da un’ubbia metastorica, ma da un diverso posizionamento nei riguardi di un reale che nella sua ambiguità non si lascia imbrigliare in una versione «ufficiale», ed eleg­ge una finzione più attendibile della Storia stessa. 

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