Il porto dissepolto di Giuseppe Ungaretti, un fugace ricordo (di Vittorio Panicara).

Forse di ciò che di segreto rimane in noi indecifrabile (Quel nulla / Di inesauribile segreto, da «Il porto sepolto») alla fine di un percorso poetico lungo e vario, che dalla Grande Guerra approda agli anni Sessanta, qualcosa resta, non è affatto un nulla, e traluce dalle fessure aperte dall’esistenza e dall’esperienza degli uomini immersi nel tempo. Forse questo qualcosa nella sua essenza rimane tuttora insondabile, ma ha concesso al poeta rari barlumi, risultato di un incessante scavo interiore e di un vissuto guidato dall’esempio dei classici, dal valore della memoria e della dignità, dalla consapevolezza che la vita è un dramma e la Storia tragedia. A questo punto il «segreto del poeta» non è più tale. Parliamo ovviamente di Giuseppe Ungaretti.
La leggenda del porto sommerso di Alessandria d’Egitto, sua città natale, sussiste tuttora, ma a poco a poco dal deserto egiziano e da quel porto sepolto è emerso un diario di vita – così Ungaretti considerava «L’allegria»: una bella biografia (dalla prefazione del 1931) – ricco di esperienze da “naufrago” scampato alla guerra e di meditazioni sui grandi temi della vita e della morte, dell’amore e della trascendenza. Sono i fiumi che hanno attraversato i suoi ricordi personali, è l’immenso che erompe luminoso. Certo, della vita rimangono frantumi, espressi nelle sue prime poesie con una poesia pura e con la “disintegrazione” del metro e della sintassi tradizionali, mediante una parola evocativa e una metrica nuova, scarna, secca, versicoli, al massimo frantumati (Leone Piccioni), che però il lettore potrà ricomporre in una nuova unità.  
E l’edizione definitiva de «L’allegria» si apre con il concetto metafisico dell’inesprimibile nulla, poi ripreso nelle opere successive, da «Sentimento del tempo» a «Il Taccuino del vecchio»:

ETERNO

tra un fiore colto e l’altro donato
l’inesprimibile nulla.

Nella versificazione parole nude e simboli sono il segno di una rivoluzione, quella del linguaggio, che esprime degli uomini un bisogno fondamentale, di tipo religioso:  è ciò che affiora nella seconda metà della produzione poetica ungarettiana, da «Sentimento del tempo» in poi, quando il poeta ricorre al recupero delle forme e dei versi della tradizione. Se lutti privati e collettivi, come il secondo conflitto mondiale, ci mostrano il senso del dolore e la barbarie degli uomini (nel 1947 esce la raccolta «Dolore»), la poesia si fa comprensione e pietà, in un tempo muto e nell’inutile e feroce infinito dei ricordi. Nel 1950 «La Terra Promessa» e dieci anni dopo «Il Taccuino del vecchio» confermano la maturazione di un sentire poetico ancora mutevole, ancora diverso e vivo, volto alla brama di Dio. E la letteratura offre l’ancora di salvezza tra i marosi dell’esistenza, con l’amato Leopardi, e con Dante, Baudelaire, Mallarmé, nonché le traduzioni dei classici, da Shakespeare, a Blake, all’Eneide, a Racine, Gongora e Mallarmé. Un ruolo simile, ma di esegesi di sé e di consapevolezza poetica, svolsero le sue quattro lezioni, tenute nel 1964 alla Columbia University di New York, sulla sua Canzone. Che così si conclude:

E se, tuttora fuoco d’avventura,
Tornati gli attimi da angoscia a brama,
D’Itaca varco le fuggenti mura,
So, ultima metamorfosi all’aurora,
Oramai so che il filo della trama
Umana, pare rompersi in quell’ora
.

Nulla più nuovo parve della strada
Dove lo spazio mai non si degrada
Per la luce o per tenebra, o altro tempo
.


Il porto dissepolto, vale a dire il tanto che resta della sua opera, testimonia così la ricerca mai vana di una “terra promessa” e il canto di uno degli interpreti più nudi e indifesi della desolazione dell’uomo moderno.
Nato nel 1888 ad Alessandria d’Egitto, dopo una vita da intellettuale europeo e da poeta coronato da successo, Giuseppe Ungaretti morì a Milano il primo giugno 1970.
Lasciamo a lui l’ultima parola:

Non so che poeta io sia stato in tutti questi anni. Ma so di essere stato un uomo: perché ho molto amato, ho molto sofferto, ho anche errato cercando poi di riparare il mio errore, come potevo, e non ho odiato mai. Proprio quello che un uomo deve fare: amare molto, anche errare, molto soffrire, e non odiare mai (Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, 1992).

FONTI, VITA E OPERE

https://www.treccani.it/enciclopedia/giuseppe-ungaretti

https://www.rsi.ch/cultura/focus/Diario-di-un-uomo-14990841.html

https://www.italialibri.net/opere/portosepolto.html

https://library.weschool.com/lezione/giuseppe-ungaretti-allegria-di-naufragi-stile-2794.html

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