Il superuomo e l’eterno ritorno

Questa è la quarta puntata di un ciclo di 4 dedicate a Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche. Qui trovate le altre tre puntate:

  1. «Così parlò Zarathustra»: una recensione in 4 atti
  2. Zarathustra: l’esaltazione dionisiaca dell’esistenza
  3. L’accettazione della vita secondo Zarathustra

Tra i nuovi valori che Zarathustra intende affermare si trovano le passioni in cui si esprime l’accettazione della vita, e di quanto si sprigiona dalle sue forze primordiali. Egli esalta pertanto l’innocenza dei sensi, che una falsa morale ha insegnato a sopprimere nella loro gioiosa spontaneità. Esalta l’amore verso se stessi, con cui si segue l’istinto, invece di calunniarlo a favore di un’aberrante spinta verso il prossimo. Esorta l’audace a seguire la propria strada anche attraverso gli ostacoli che la moltitudine, incapace di sottrarsi alla mediocrità, pone sul suo cammino, al rischio della solitudine e del disprezzo. Esalta il valore dell’amicizia bella e spontanea, che non è soltanto quella della comprensione reciproca, ma va anche a volte conquistata persino con la lotta, sì che “l’amico è costantemente in guerra con l’amico”.

E in effetti è proprio Polemos che, come “santificazione di ogni causa” ha compiuto cose più grandi dell’amore per il prossimo. Esso è positivo perché allontana dalla passività, e stimola le manifestazioni più sacre di conquista e di fedeltà alla terra. Che non significa solo abbandonare ogni pretesa trascendente, ma anche e soprattutto favorire l’avvento del Superuomo. Così Zarathustra sembra trasformare a suo modo la dottrina evoluzionistica, considerando l’uomo come un punto di passaggio verso un essere più alto, che è l’incarnazione di quella volontà di potenza che è alla base di ogni valutazione estetica, conoscitiva e morale. Perciò il primo compito di ognuno è quello di affrancarsi dalle valutazioni correnti e dai legami convenzionali, di rinunciare a tutto ciò che gli altri pregiano, e porre la soddisfazione nel “divieni ciò che sei”.

Se l’essere umano è perfettibile, ciò non accade in grazia di un’illuminazione divina o di un ideale ultramondano. Restare fedeli alla terra significa restare fedeli prima di tutto a se stessi, cercare in se stessi le ragioni e le cause della dignità. Il superuomo non è quindi un essere esteriore all’uomo stesso, ma il suo perfezionamento. E il suo avvento sarà possibile solo attraverso una progressiva e consapevole lotta col filisteo che è in sé e con le costrizioni circostanti. Ma per riuscirci è necessario che abbandoni ogni pretesa metafisica e non si distragga nell’illusione. Solo una volta convinto della sua sostanziale natura terrena, ecco profilarsi i veri avversari, contro cui ingaggiare le battaglie più vere, più decisive, più reali, ma perciò anche spiccatamente individuali. Certo, esistono bisogni comuni che richiedono una medesima soddisfazione. Ma l’insieme è costituito da una molteplicità di soggetti unici e irriducibili, ognuno dei quali deve trovare il sentiero personale. Ché se il superuomo è una meta comune a molti, non esiste però un’entità astratta come ideale obiettivo di perfezione. E lo diviene solo chi è capace di realizzare le sue aspirazioni più profonde e irrinunciabili.

È questo il senso ultimo del perentorio imperativo di Zarathustra: “divieni ciò che sei!” L’uomo non deve soltanto affermare senza equivoci il suo essere terreno (che costituisce tuttavia una tappa fondamentale), ma anche le sue inalienabili esigenze personali. Se l’errore della morale tradizionale consiste nell’appiattimento sulle certezze condivise, il virtuoso, il buono, l’altruista, sono il prodotto di una fondamentale menzogna, ed espressione della vigliaccheria di chi è incapace di affrontare da solo le proprie responsabilità. Perciò il superuomo si realizza nello stacco dalla morale comune, e nell’ascolto delle più profonde voci intime, oltre a quelle della specie. Giacché il superuomo vuole più che la vita: vuole la potenza, come manifestazione genuina delle forze primigenie, per il cui mezzo si distanzia da una cinerea mediocrità di fratellanza e uguaglianza.

Si capisce allora come il superuomo nicciano, nel suo violento individualismo, si distingue dall’eroe storico-cosmico di Hegel e del Romanticismo, perché non ha il sostegno di nessuna struttura universale, e non esprime nessun assoluto, nessun processo unitario e nessuna provvidenza. Con la sua risolutezza si pone invece come unico rimedio a una condizione asservita ai capricci del caso, in cui, a portare un po’ di luce, è solo la volontà che non cessa di affermarsi in un eterno presente, e organizza in necessità il disordine, diventando ragione e causa di quanto accade. In questo modo ognuno, anziché sentirsi schiacciato da un contesto che non comprende, vedrà in esso il risultato della sua azione formatrice, per cui ciò che è stato diventa “ciò che io volevo che fosse”. Solo che, affinché il volere possa avere effetto retroattivo, è necessario per Nietzsche introdurre l’altra fondamentale nozione dell’eterno ritorno, per cui il tutto si svolge secondo un processo circolare, e “ritorna continuamente su se stesso”. Così, se ciò che è è già stato e sarà ancora, ecco allora giustificato il mio atto libero, che concorre a far sì che il mondo sia quello che è.

Ma come conciliare col cieco movimento del caso questo processo costante non privo di raziocinio? Se il ciclo ritorna continuamente su se stesso, esso segue in ordine che lo sottrae all’imprevedibilità del caso. Ma come conciliare allora libertà e necessità? Su questo punto il Così parlò Zarathustra non dà una risposta esauriente: come se il mito dell’eterno ritorno, più che un’interpretazione della realtà, fosse piuttosto una sua rappresentazione. Si tratterebbe cioè più di un’intuizione poetica e affascinante che di un vero strumento di conoscenza. Essa forse tradisce il bisogno del suo autore di uscire dall’irrazionalismo in cui aveva relegato l’uomo e l’universo, per cercare una spiegazione logica, in cui tuttavia non crede. Se il filosofo Nietzsche non osa oltrepassare i limiti a cui le sue meditazioni l’hanno condotto, il poeta Nietzsche, recuperando le possibilità della fantasia, apre uno spiraglio inedito sulla sua personalità, e lascia intravedere il sentiero che forse avrebbe percorso, se la malattia non gli avesse così drammaticamente spento il cervello.

Dal Così parlò Zarathustra risulta chiaro come Nietzsche si considerasse artefice ed arbitro della cultura europea. Ma malgrado la coscienza che aveva del valore dell’opera, quest’ultima non ebbe, lui vivente, nessun successo, e di conseguenza nessun impatto sulla cultura coeva che sperava di modellare. Stampato a spesa dell’autore in sole 40 copie, il libro passò completamente inosservato, come del resto tutti gli altri suoi scritti. Bisognerà giungere ai primi del ‘900 perché la sua fortuna si sviluppi in tutta l’ampiezza. I teorici dell’irrazionalismo, gli immanentisti di tutte le scuole, i fiduciosi nella missione del superuomo, i sostenitori dello spirito di potenza, e in genere i più convinti e accesi individualisti: tutti si riconobbero più chi meno nel suo insegnamento, e ne fecero il proprio profeta. Né mancarono naturalmente i travisamenti e le degenerazioni (cui del resto contribuì non poco la mediocrità della sorella): che se da una parte favorirono la diffusione delle sue opere, dall’altra lo caricarono della poco gloriosa paternità dell’ideologia nazista.

Col rinculo storico necessario, oggi possiamo meglio capire come egli, lontano dall’essere il nichilista e il dissacratore, il distruttore che filosofava “a colpi di martello”, era forse animato da un’esigenza morale non comune, che sola spiega la virulenza della sua lotta antimorale, e dal profondo desiderio di contribuire, con i mezzi che più gli sembravano opportuni, al benessere dell’uomo.

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