Pitagora e la sua scuola

Briciola di filosofia #20

Trovate le puntate precedenti, sulla pagina dedicata a questa rubrica: Briciole di filosofia


Curioso che la vita di questo pensatore universalmente noto per il suo teorema (equivalenza della somma della superficie dei quadrati costruiti sui cateti con quella costruita sull’ipotenusa), sia avvolta da un tale mistero da impedire un profilo della sua personalità, destino che lo accomuna ad altri oscuri rivoluzionari della storia, come il geniale inventore della ruota o quello della scrittura alfabetica. Tuttavia leggermente più informati con Pitagora (che a quanto pare fu il primo ad introdurre il termine “filosofia”), ci troviamo davanti a un personaggio straordinario di terapeuta, profeta, taumaturgo e ciarlatano, a cui si attribuiscono profezie e miracoli. Non c’è da stupirsi pertanto se la sua figura sia facilmente sconfinata nella leggenda, che lo dice fornito di una coscia d’oro, che fosse sceso all’Ade come Orfeo, e che fosse in grado di udire la musica delle sfere!

Nella nebbia che l’avvolge e impedisce di secernere la realtà dal mito, riusciamo appena a decifrare che, nato a Samos, operò in Asia minore prima di spostarsi nella colonia italica di Crotone (che, come ho sperimentato anni fa, dà ancora il benvenuto ai visitatori in suo nome), dove fondò la scuola che da lui prende il nome. Si trattava di un’associazione al tempo stesso religiosa, politica e scientifica, a cui si accedeva dopo un lungo tirocinio. Durante i primi cinque anni i discepoli, detti acusmatici, erano semplici uditori che dalle parole perentorie del Maestro apprendevano precetti di ordine morale e gnoseologico. Solo dopo venivano iniziati, in qualità di matematici, ai livelli più alti delle dottrine esoteriche. Ma a contare era sempre l’autorevolezza del maestro, dietro cui si riparavano con l’autos efa (ipse dixit), rifugio di ogni setta o fanatismo che si rifaccia a una parola immutabile che tutto giustifichi… E poco importa se dettava anche curiose prescrizioni alimentari e comportamentali, come l’inesplicabile astensione dalle favi e dalla carne o l’eliminazione delle tracce del tripode nella cenere. Più vincolanti erano invece i precetti di carattere etico, come il quotidiano esame di coscienza, la fedeltà agli amici, l’obbligo della segretezza (leggi omertà), e soprattutto l’accettazione dell’indiscussa autorità del maestro.

Benché, per il carattere chiuso della scuola e il mistero che l’ammanta, oltre alle nozioni generali resti difficile determinare quanto della dottrina sia frutto del maestro e quanto sia stato aggiunto dai discepoli, questa scuola ha dato un contributo rivoluzionario alla ricerca del fondamento delle cose, senza cui nulla può essere percepito. Poiché non solo identificava l’arché nel numero, ossia in un principio al tempo stesso immateriale e materiale, mentale e fisico, pensabile ma anche rappresentabile in un tratto geometrico; ma stabiliva persino una gerarchia di valori, riconoscendo ai numeri un particolare significato nella corrispondenza simbolica tra quelli pari e quelli dispari. Il numero 1 invece (ricordo che i greci non conoscevano lo zero), era detto parimpari, perché aggiunto a un numero dispari lo rendeva pari, e aggiunto a un numero pari lo rendeva dispari. Dalla somma poi dei primi quattro numeri (1+2+3+4) si otteneva il 10, il numero perfetto della tetraktus, rappresentata graficamente da un triangolo rettangolo, con base quattro e vertice uno, su cui pertanto i pitagorici giuravano…

Questi rapporti numerici non esistevano beninteso solo nella matematica e nella geometria, ma costituivano il fondamento dell’intero universo, ad anticipazione della famosa dichiarazione di Galilei secondo cui il mondo è scritto in caratteri matematici. A incoraggiare Pitagora (o chi per esso) su questa via era stata l’esperienza che, pizzicando a metà una corda fissata tra due estremi, quella che si ottiene non è una nota qualunque, ma una nota dall’altezza raddoppiata, e riprodotta dunque all’ottava superiore. Era la dimostrazione che esiste uno stretto rapporto tra matematica, musica, e il moto degli astri, come pretende certa mistica astrologica. E non per niente Pitagora pretendeva di avere la facoltà o l’orecchio sopraffino di saper cogliere la musica delle sfere, ossia quella emessa dal movimento dei pianeti: che invero non è poi esperienza così peregrina, come probabilmente sa chiunque abbia tracannato, sopravvivendovi, una bottiglia di vodka, o anche solo di vino… Quanto alla dottrina del pitagorismo concernente la trasmigrazione delle anime, altrimenti detta metempsicosi, non si trattava di una concezione originale, ma era stata presumibilmente ereditata dagli orfici, e in tempi ancora più recenti e con diversa sfumatura sarà rispolverata da Nietzsche. È la dottrina secondo cui l’anima, maculata da un’oscura colpa primigenia, è condannata a cadere in un corpo (soma) come in una tomba (sema), per un’imprecisata quantità di volte, fino alla purificazione finale. Non sappiamo (ma non è escluso) se Pitagora si fosse ispirato al samsara indiano, o si trattasse di un’intuizione autonoma. Fatto sta che per redimersi l’anima deve attraversare tutta una serie di trasformazioni e reincarnazioni per scrollarsi della lordura della carne. Il cristianesimo accoglierà poi l’idea del peccato originale, ma non ammettendo la trasmigrazione affibbierà il peccato ad ogni anima nuova di zecca, attribuendolo ai nostri maldestri progenitori edenici, che con un atto di disubbidienza hanno maculato l’intera discendenza. Anche se, con meno rigore dei pitagorici, che prevedevano una complessa serie di pratiche purificatrici insieme all’interminabile andata di corpo in corpo, più misericordiosamente per lo smacchiamento prescriverà appena qualche goccia di acqua santa…


 

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