Il racconto della disumanità attraverso la storia: “Atti umani” di Han Kang (di Maresa Schembri)

Il 18 maggio 1980 milioni di civili sono stati massacrati nella piazza di Gwangju, durante una manifestazione pacifica contro il regime di Chun Doo-hwan. Un comando che ha dato origine ad una strage, una licenza all’eccidio mascherata da un falso tentativo di placare la rivolta. In Atti umani Han Kang testimonia con una scrupolosità quasi intollerabile questo orrore: corpi smembrati, macabre descrizioni, cadaveri in decomposizione, il terrore dei sopravvissuti, lo strazio delle madri che hanno perso i loro figli. Un bagno di sangue generato soltanto dal tentativo, da parte dei manifestanti, di chiedere riforme democratiche per il loro Paese.
L’autrice, che a quel tempo era soltanto una bambina di nove anni, ha ritenuto doveroso non gettare l’episodio nel dimenticatoio, circoscritto all’arco temporale in cui è avvenuto, ma ha confidato nel potente valore della scrittura per denunciare la gravità dell’episodio, per raccontarne i risvolti disumani attraverso la brutalità dell’oppressione e, di conseguenza, per scuotere le coscienze.
Quanto può essere disumano l’essere umano? Il racconto di Han Kan, lungi dall’essere cronachistico, ce ne dà un’idea chiara, senza risparmiare in dettagli e con una scrittura sempre lucida e attenta.
Le voci che ascoltiamo, più che le parole che leggiamo, sono quelle di bambini, ragazzi, prigionieri e madri senza più figli. Più voci di un unico coro, in cui la morte accomuna ognuno di loro. Il tipo di narrazione, dunque, è corale: tante note per intonare un’unica canzone di morte. Sette storie, sette personaggi che narrano la vicenda prima, dopo e durante la strage secondo la propria personale versione, ma tutti sono partecipi di un unico racconto. Ma il vero pregio del libro risiede nel non immobilizzarsi in un solo momento: il dramma, infatti, presenta degli strascichi che durano nel tempo per osservarli attraverso gli effetti che causano.
Quella che si indaga in Atti umani non è la Corea del Sud dei grattacieli, dell’espansione economica e dell’industria cosmetica, ma il volto di un paese molto vicino all’Occidente odierno, quello che ha conosciuto olocausti, foibe e gulag e che tende a dimenticare la storia, sia quella remota, sia quella più recente.
Queste pagine sono laceranti, impegnative e disturbanti; sono l’elaborazione portata avanti dalla scrittrice di fedeli ricostruzioni dei racconti delle persone che quella tragedia hanno vissuto in prima persona. E per imparare la storia, o per saperla riconoscere, Han Kan ha pensato che non fosse necessario alcun abbellimento, alcuno schermo, alcuna opera depurativa: va raccontata così com’è, nella sua più genuina e atroce violenza.

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