Un moderno classico: Roberto Pazzi

di Gerardo Passannante

Per esporre in una sintesi necessariamente insufficiente le ragioni per cui, a poco più di un mese dalla scomparsa, Roberto Pazzi ha già assunto la fisionomia di un classico, mi sono dato alcuni criteri, insieme alla precisazione che nella sua narrativa non farò distinzione tra il filone antico e moderno, essendo essi paralleli e complementari. Eviterò inoltre di parlare della sua poesia, così splendidamente riassunta nell’ampia antologia Un giorno senza sera, che richiederebbe un discorso specifico (e le cui origini si possono scorgere nella corrispondenza con Vittorio Sereni, puntualmente curata e annotata da Federico Migliorati per le Edizioni Minerva). E dico che se classico è un autore in grado di scrutare i tracciati segreti della realtà, per sceverare il vero dal falso, la sostanza dall’apparenza, la verità dalla mistificazione; se classico è un testimone del proprio tempo verso cui però si pone in posizione critica e vigile; se classico è chi, oltre la volubilità delle mode, osa confrontarsi con temi universali; se classico è chi dal suo privatissimo universo sa sollevarsi a una più ampia inchiesta sulla condizione umana, travasando la qualità nella quantità: ecco allora che il nostro autore si annovera a buon diritto tra i classici, per le ragioni che cercherò di dire.

     La molla narrativa di Roberto Pazzi scatta da un cozzo problematico col reale, di cui offre una personalissima lettura, con la persuasione che solo un’investigazione guidata da occhi che non si lascino ottundere dalla concretezza della materia possa restituire la cifra più autentica delle cose. Convinto, con Montale, che la realtà “non è quella che si vede” e che la presenza più certa sta nell’assenza, per discernere l’essere dall’apparire e la verità dalla menzogna, Pazzi guarda al mondo con un cannocchiale capovolto, operandone una sostanziale corrosione. Si tratta di un’esplorazione controcorrente, irregolare, irriverente, il cui fine è la dissacrazione del santificato e dell’ovvio, la messa in dubbio dell’acquisito, e il rifiuto di panzane sollevate a virtù. E per farlo ricorre allo scarto di prospettiva consentitogli dallo strumento creativo per eccellenza della fantasia. Che, caricata della metafora fortemente simbolica del viaggio, parte per un’immersione all’interno della psiche, ma anche del mondo contemporaneo e del passato.

     È la fantasia, in effetti, che applicandosi alla realtà ne opera una grottesca e visionaria deformazione: sia che cerchi nell’infanzia la levitazione della fiaba o l’origine della scrittura (Le forbici di Solingen), sia che affidi la biografia a un misterioso autore, che mescola riferimenti privatissimi ai pubblici (Qualcuno mi insegue). Ed è ancora essa che lo spinge a delegare a un alter ego il compito di realizzare una vita che avrebbe potuto essere e non è stata (Dopo primavera), a inseguire la stagione della giovinezza (La trasparenza del buio). Ed è sempre essa a sollevare il velo sul conflitto di due infelici, che si svuotano delle macerie del proprio abisso negli angusti termini temporali di una sola notte (Incerti di viaggio). Fino alla sintesi operata nel suo libro postumo, La doppia vista, dove personaggi reali e letterari si mescolano nel caleidoscopio onirico in cui lo scrittore, già affacciato sulla morte, rivela tra tremore ed orgoglio il più intimo universo. 

     Ma oltre ad applicarsi all’oscurità della psiche e del privato, Pazzi non esita a sbrigliarsi anche su personaggi pubblici, per coglierne la dissimulata fragilità. Che è quanto accade a un papa (in cui è riconoscibile Woytila), che, facendo un bilancio del suo operato, sospetta che forse avrebbe potuto fare altro (L’Erede); o a un politico-imprenditore (facilmente intuibile), a cui il timor mortis ispira la decisione di ritirarsi in convento (Il signore degli occhi). Oppure si intrufola tra i lavori di un’elezione, per svelare da quali sottili maneggi emergerà il nuovo pontefice (Conclave). E ancora, ampliando il quadro, è sempre la fantasia a trascinare nel fiabesco e nell’onirico un intero agglomerato (La città volante); o a scoprire i sogni dei suoi abitanti in una dimensione ambigua o surreale (Le città del dottor Malaguti); oaddirittura a porre l’Italia stessa nelle mani di un inverosimile sovrano, che spiazza con una politica incapace di risolvere la sua crisi (Domani sarò re). A conferma che, nell’investigare il mondo contemporaneo, non c’è autore che si sia mosso così a macchia come Pazzi; e non c’è classe o categoria sociale su cui egli non abbia, ironicamente e grottescamente, puntato la lente.

     Accanto a questa scorrazzata nel privato e nel presente, un altro viaggio il nostro autore intraprende in groppa al suo Ippogrifo, questa volta nella Storia. Per esplorare, sotto la sua sterminata evidenza, la landa sommersa del diverso o dell’inaccaduto: con l’intento di denunciarne la “falsa” vulgata; e restituirne, accanto alle brutture, anche il sepolto incanto delle magnanime illusioni. Ed ecco allora Pazzi ideare tutta una serie di romanzi storici, che non sono per niente una trasposizione in costume di efferatezze o di avventure, come troppo spesso li si intende. Più che addobbarla dei paramenti dell’horror e del thriller, Pazzi piega la Storia ad esigenze narrative nutrite di fiaba. Col cui supporto le lancia una sfida che con improvviso scarto la ribalta per affermare, contro l’impostura dei vincitori, la sepolta verità dei vinti: che la narrazione sottrae all’arroganza dei potenti, per svelare “di che lacrime grondi e di che sangue.”

     È chiaro, allora, che questo approccio alla Storia si discosta di molto dal realismo di impronta manzoniana. Ciò che invece compie Pazzi è una lettura eretica che, paradossalmente, costituisce una forma di iperrealismo. Una scelta che, iniziatasi col libro di esordio, Cercando l’imperatore, è proseguita con La principessa e il drago e La malattia del tempo. Romanzi in cui Pazzi è già se stesso, anche se è con Vangelo di Giuda e La stanza sull’acqua che il discredito del passato si compie pienamente. È in questi libri che con più forza lo scrittore manipola i fatti, mettendoli al servizio dell’intelligenza poetica, nel tentativo di Stephen Dedalus di destarsi dall’incubo della Storia, per salpare oltre le Colonne d’Ercole. Ché se il viaggio, come canta Baudelaire, è ricerca dell’altrove e dell’ignoto, quell’approdo non può che situarsi nell’inalterabilità del mito: come accade nel più recente Verso Sant’Elena a Napoleone, che dalla sua ingombrante “storicità” anela invece all’umile ricetto di un idillio giovanile.

     Una simile rivisitazione della Storia non può tuttavia ignorare il ruolo svolto dalla Chiesa, che ha codificato nel corso dei secoli tutta una serie di divieti e prescrizioni. A suscitare l’indignazione di Pazzi è soprattutto il fatto che la religione, nella sua progressiva secolarizzazione, ha contribuito a rendere i soggetti schiavi di pregiudizi e false attese, intralciandoli nel loro sacrosanto anelito alla felicità. È qui che lo scrittore, più risentitamente, critica una Chiesa che ha tradito i suoi principi, e eleggendo un esibizionismo travestito da spirito missionario, si è cinicamente spettacolarizzata, come se si fosse nutrita più di Machiavelli che dei Vangeli. Il che lo spinge, nella tensione etica e filosofica di libri coraggiosi come L’ombra del padre, a drammatizzare il rapporto del Padre col Figlio, nel denso contrasto tra un uomo assetato di umanità e un ente annoiato di solitudine e perfezione; prima di far percorrere in Hotel Padreterno a Dio stesso le vie della terra, a verificare nella sua creazione il divario tra il suo progetto di benessere e l’ineliminabile percussione del male.

     Ma ciò che Pazzi assolutamente non sa perdonare alla Chiesa è di aver predicato una fratellanza astratta, ideologica e sterile, dimenticando che l’amore si nutre di calore di mani e di vicinanza alla miseria, in tutte le sue forme: perché, citando Saba attraverso Sereni, “D’amore non esistono peccati”, ma soltanto peccati contro l’amore.Prima che la Chiesa emettesse i suoi proibitivi precetti, la grecità e la romanità godevano di una libertà ben più sana di quella repressa da un moralismo bacchettone: che, castigando la spinta spontanea dell’eros, ha condannato la pulsione irruente e fanciullesca del dionisiaco nietzschiano. Considerando allora l’oltraggio fatto all’amore da secoli di oscurantismo, nel suo libro forse più dolente (Mi spiacerà morire per non vederti più) Pazzi scaglia un’energica accusa alla miope visione giudaico-cristiana, che affida all’eros solo finalità riproduttive; e stigmatizza l’ipocrita carità del perbenismo e della falsa virtù.

 Vero è che anche l’amore non può sfuggire alla greve macina del tempo: che gli strappa un lamento sulla giovinezza perduta, col rimpianto per l’impossibile recupero dei percorsi alternativi, in una vita che si srotola giorno per giorno a senso obbligato verso la morte (Lazzaro).  Ed è così che l’azione dissolutrice del tempo conduce lo scrittore al confronto col problema esistenziale per eccellenza: quello della morte. Che, inchiodando l’uomo alla sua estrema, inalterabile fissità, paradossalmente gliene sottrae la vista. Convinto, con Céline, che “la verità di questo mondo è la morte, anche se noi siamo troppo presi dalla menzogna della vita”, e che solo in essa giace la nostra vera essenza (e riecheggiando il Dialogo di Ruysch nelle Operette morali), Pazzi sa che col suo sopraggiungere ogni parentesi è destinata a chiudersi. E tutto il nostro universo irripetibile sprofonderà nel suo generoso contenitore. A meno che un audace sortilegio, foscolianamente e proustianamente, non salvi una traccia del nostro passaggio grazie a un’opera destinata a durare.

     Da questa ansia di non perire del tutto, ecco nascere l’urgenza di mettere in parole la testimonianza del proprio esserci stato, affinché diventi esperienza comune. Solo l’arte, quando è tale, può lasciare una firma del suo transito. E la scrittura, intesa come resilienza al sopruso della morte, è la sola prodezza in grado di salvare i fantasmi di cui ci siamo nutriti: poiché solo essa, moltiplicando l’unicità dell’individuale in esistenze plurime, può fecondare e amplificare anche la reminiscenza dei lettori. E così, in questo nobile gioco, strappa un risarcimento all’avara ingordigia della vita; e riempiendo il vuoto che corre tra le due date incise sulla lapide, si candida a via regia nel viaggio verso l’ignoto. 

     Il coraggio di trattare grandi temi, la capacità di inoltrarsi tra le pieghe del cuore, la pregnanza e la precisione lessicale, l’ampiezza delle soluzioni formali, la creazione di figure memorabili, l’ininterrotto travaso della qualità nella quantità, sono dunque alcune delle condizioni poste all’inizio come criteri per un classico, felicemente rispettate da Pazzi. Che non ha mai smesso di denunciare la menzogna politica e religiosa; riproporre la questione del male; tentare il superamento del transeunte nel mito; additare la drammatica unicità dell’essere contro il sogno del possibile; rimpiangere il rotolare a senso unico del tempo; offrire l’àncora dell’amore alla giovinezza fuggente; dire no all’invalicabile orizzonte della morte con la durata nella memoria creativa. E ha svolto questi gravi temi in una scrittura evocativa, controllata, essenziale, piana ma densa, affabulatoria e aderente alla realtà della mente, col suo farsi racconto attraverso una sorprendente varietà. Che, stemperando quadri suggestivi lungo l’asse del tempo, Pazzi affida di volta in volta alla narrazione onnisciente, al dialogo, al monologo interiore o alla confessione, senza tralasciare un pizzico di cauto sperimentalismo. E dentro un’affabulazione aerea mescola echi e citazioni più o meno latenti di Bulgakov, Marquez, Borges, Yourcenar, Ariosto, Saba, Montale, Leopardi, Proust, Kavafis, Céline, Joyce, Canetti, e vari altri.

     Molto ancora ci sarebbe da dire; ma per intanto ecco alcune delle ragioni, tematiche e stilistiche, per cui Roberto Pazzi può a giusto titolo essere considerato un classico, per la costante attenzione a rovistare nel guazzabuglio del mondo. Poiché questo persegue la narrativa, quando è alta e adempie al suo compito specifico di sollevarsi dal particolare all’universale. Altrimenti resta solo una terapia infruttuosa, e persino perniciosa, se non percorsa da quell’emozione poetica che fa levitare le pagine oltre i referti, e oltre il minimalismo degli stenterelli o dei grossolani centoni similstorici. Giacché Pazzi, con la sua nobiltà di affabulare, innestata sulla dimensione dell’oralità (e chi l’ha sentito dal vivo sa che ne era maestro!) si solleva costantemente sulla frigidezza dei referti. Così che, se la letteratura è menzogna, serve a correggere la menzogna più grossolana dell’apparenza, della Storia stessa e del potere, per tendere a una verità che si sposta continuamente, come una preda mobile. E nel cui inseguimento si valorizza lo sforzo dell’artista impegnato a restituire qualche bagliore dell’incerto eppur prodigioso passaggio sul palco, prima che cali il sipario…


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4 commenti

  1. Per vari motivi, non ho mai avuto modo di leggere le opere di Pazzi, ma dopo questa bellissima e chiarissima introduzione di Passannante, non potro’ che cominciare a leggerle!

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