Il genio inquieto di Ovidio: vita, opere e esilio

4–6 minuti

Publio Ovidio Nasone nacque a Sulmona il 20 marzo del 43 a.C. e morì a Tomi sul Mar Nero (oggi Costanza) nel 17 d.C. Giunto giovane a Roma, e presto entrato nel circolo letterario di Messalla Corvino, Ovidio mise in evidenza il suo brillante ingegno già nelle prime opere scritta intorno ai vent’anni, Amores e Eroides, che, se pure altri versi dell’adolescenza sono scomparsi, bastano a fissarne l’originalità e la grandezza.

Anche se entrò in alcune pubbliche magistrature inferiori, non aspirò mai all’ordine senatorio, schivo com’era di ambizioni, perché, come disse di sé, le Muse lo invogliavano alla vita tranquilla a cui il suo animo aspirava. Più movimentata fu invece la vita coniugale, con ben tre matrimoni. Dal primo, con una donna “nec digna nec utilis”, qualunque cosa intendesse con questo, non ebbe figli e divorziò presto. Meglio andò col secondo, con una donna di buoni costumi, ma inadatta alla lunga convivenza di un poeta che non doveva avere un carattere docile: e ne seguì un altro divorzio. La terza moglie invece, una giovanissima appartenente alla Gens Fabia, lo sostenne con affetto nei giorni lieti, ma anche nella disgrazia che doveva improvvisamente cascargli addosso…

Mentre a Roma conduceva una vita spensierata, tra eleganze del bel mondo e i circoli culturali, quando già risuonava la sua fama e il poeta aveva l’impressione di non aver più nulla da chiedere alla vita, ecco che nell’8 d.C. un’inaspettata sventura si abbatté su di lui, sotto forma di un ordine imperiale che lo esiliava nell’inospitale “cacatoio” di Tomi, ai confini dell’impero, decretando al tempo stesso che la sua Ars amatoria, pubblicata sei anni prima, fosse espulsa dalle biblioteche. Ancora oggi è ignota la ragione che indusse Augusto a quella severa misura verso un intellettuale che non faceva vita politica attiva e dunque non era pericoloso. Forse fu per impedire la pubblicità di uno scandalo di corte in cui il poeta era in qualche modo implicato, visto che analoga pena colpì anche Giulia, nipote di Augusto, che sulle orme della madre aveva avuto inverecondi rapporti… Come che fosse, il pretesto fu un intervento di pubblica moralità contro il poeta che, avendone scritto, se non di fatto almeno idealmente poteva sembrare maestro di dubbie virtù e dissolutezze domestiche…

In quel duro inverno Ovidio si imbarcò quindi a Brindisi, e dopo un faticoso viaggio giunse a Tomi, allora un paese arido, abitato da una popolazione getica. E da lì, di anno in anno vide diminuire le speranze di un condono, visto che neppure Tiberio volle accoglierne la supplica; e là terminò i suoi giorni nello sconforto, forse disperando che la sua fama avrebbe attraversato i secoli.

La sua carriera letteraria aveva avuto inizio, come abbiamo visto, con gli Amores, una raccolta di elegie in onore di una certa Corinna, e con le Eroides, sorta di epistolario contenente le lettere di antiche eroine a mitici amanti, della cui originalità il poeta era ben consapevole, tanto da affermare che “Ignotum hoc alis ille novavit opus”. Qualche tempo dopo, con l’Ars amatoria, Ovidio dava il suo capolavoro alla poesia erotica latina, nonché un carme sui cosmetici riparatori della bellezza femminile di cui rimangono purtroppo solo pochi versi. E sempre intrigato dal tema amoroso, nei Remedia amoris questo archiatra della psiche tenera non mancò di suggerire scappatoie a chiunque voglia liberarsi dalle pene di Cupido.

Dopodiché, fors’anche per l’avanzare dell’età o per essersi il cuore placato nella dedizione della terza moglie, pur senza abbandonare quella vena feconda, il poeta inaugurò il ciclo eroico delle Metamorfosi: per cantare nei 15 libri in esametri circa duecento leggende greco-romane sull’antico mondo dei miti, a cominciare dal Caos fino all’apoteosi di Cesare. Un’opera, peraltro, che solo fortunosamente ci è giunta, visto che il poeta, scoraggiato dalla malasorte, nel lasciare Roma diede alle fiamme il manoscritto incompleto, con l’amarezza e la cautela dell’artista scontento di un’opera ancora imperfetta. Sapendo però che ne esistevano un paio di copie in mano di amici, Ovidio raccomandò di aggiungere in epigrafe l’avvertenza che era quasi un avanzo rapito al suo funerale quell’imperfetto poema emendaturus, e dunque da limare se solo ne avesse avuta la possibilità.

Altra opera interrotta a causa della relegazione a Tomi erano I fasti, il poema che celebrava in distici elegiaci le feste e i diritti umani, concepiti in 12 libri, uno per ogni mese, ma di cui l’autore scrisse solo i primi sei. Durante l’esilio invece, a riflesso dello stato d’animo che lo teneva, Ovidio compose i 5 libri delle Tristia; un’invettiva dal titolo Ibis contro un ignobile persecutore, nonché un poemetto sulla pesca, che doveva essere la modesta occupazione a cui si era ridotto. Più significativo è invece un frammento di Nux, che svolge il motivo, già noto all’epigrammatica greca, di un noce posto sul margine della strada, che si lamenta delle sassate ricevute come compenso alla sua utile fecondità: palese e triste allegoria della condizione dell’esule…  

Poco ci importano le altre opere, minori o estemporanee. Molto di più conta che il suo appello desolato dalla sponda del Mar Nero, se cadde nel silenzio del palazzo imperiale, non cadde nella memoria dei secoli: così che Ovidio, insieme a pochi suoi grandi contemporanei, ebbe la fortuna di attraversare il tempo, dall’antichità al Medioevo e dal Rinascimento ai nostri giorni, per regalare favole e favole a ogni mente avida di evasioni e sogni, a testimonianze dell’ininterrotta fortuna che ha sempre accompagnato la sua produzione, anche se per tutti gli innamorati si riassume in un bacio da cioccolatino:

…nec sine te nec tecum vivere possum
(non posso vivere senza di te, e non posso vivere con te)
Amores III, XI, 39

Un commento

Lascia un commento