Questo articolo esce per la nostra rubrica Pillole di narrativa

La Kolyma è una desolata regione di paludi e di ghiacci all’estremo limite nord-orientale della Siberia. L’estate dura poco più di un mese; il resto è inverno, caligine grigia, gelo che può scendere anche a sessanta gradi sotto zero. È qui che negli anni più bui dello stalinismo vengono deportate decine di migliaia di persone, chiuse in campi di lavoro, sfruttate a fini produttivi e di colonizzazione della regione.
In questo scenario di orrore e di morte finisce nel 1937 anche Varlan Šalamov per scontare una condanna per “attività controrivoluzionaria trockista”. Alla Kolyma Šalamov rimarrà fino al 1953; riuscirà a sopravvivere, e soprattutto a non smarrire la propria umanità, cosa niente affatto scontata in quella propaggine d’inferno fatta di gelo, fame, lavoro massacrante, violenza fisica e psicologica continua. Anzi, sembra quasi un miracolo. Ed è grazie a questo miracolo che sono nati nel 1954, dopo la morte di Stalin e subito dopo il suo ritorno a Mosca, I racconti della Kolyma, viaggio in quell’abisso di depravazione e atrocità che l’uomo, se messo nelle condizioni di farlo, è perfettamente in grado di concepire, realizzare e infliggere al suo prossimo.
Tassello dopo tassello Šalamov compone il suo monumentale mosaico contro l’oblio, il suo poema dantesco sulla vita e sulla morte, sulla forza del male e del tempo. “Il lager è una scuola negativa per chiunque, dal primo all’ultimo giorno. L’uomo non deve vederlo. Ma se lo vede, deve dire la verità, per quanto terribile sia. Per parte mia, ho deciso che dedicherò tutto il resto della mia vita proprio a questa verità”, così scriveva Šalamov a Solzenicyn nel novembre del 1962. In questa discesa negli abissi della memoria, i ricordi si snodano come una partitura musicale, conducendo il lettore in un abisso di orrore ma senza che si scivoli in sentimenti di odio o risentimento. La sua infatti non è una penna rabbiosa ma una lente che ci restituisce un’immagine raccapricciante dell’uomo. Ne viene fuori l’affresco di un universo estremo dove trovano ragion d’essere vari aspetti dell’anima umana: la crudeltà, la delazione, l’oppressione, il torbido esercizio del potere, ma anche la solidarietà, la bellezza, il gusto del lavoro (in ospedale) ben svolto.
I fatti vengono raccontati nel modo più neutro e oggettivo possibile, talvolta con punte di amara ironia, e la materia del ricordo risulta vivida per l’acutezza con cui le situazioni vengono interpretate nella loro concreta e psicologica complessità.
I racconti della Kolyma non è solo una preziosissima testimonianza di quel che ha prodotto una delle più sanguinarie e disumane dittature del Novecento ma è un libro fondamentale, ineludibile per chiunque si interroghi sulla natura dell’uomo.

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[…] Il racconto – testimonianza di Šalamov in “I racconti della Kolyma”. […]
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