
Nostalgia, romanzo d’esordio dello scrittore israeliano Eshkol Nevo, è stato riproposto nel 2014 da Neri Pozza e si presenta suddiviso in quattro stanze, un prologo e un esilio che scandiscono l’azione dei personaggi.
La particolarità della narrazione non risiede soltanto nel fatto che il sentimento nostalgico sia il reale protagonista, ma soprattutto nel constatare che esso costituisce il terreno nel quale l’autore può spaziare parlando d’altro: della guerra arabo-israeliana e del tema ideologico della società di appartenenza.
La nostalgia prende subito corpo sulle quinte della storia quando Nevo descrive il luogo, El Castel, collina tra Tel Aviv e Gerusalemme, teatro del racconto, crocevia di due culture diverse e paese dove lo stesso scrittore ha dichiarato di aver vissuto e che, nella narrazione, evoca con naturale malinconia.
L’invenzione narrativa accoglie una pluralità di sguardi sul mondo, è affidata alle voci dei personaggi e, soltanto in alcuni momenti, procede in terza persona, come se l’obiettivo si allontanasse temporaneamente dalla scena degli avvenimenti per distrarsi, per prendere respiro.
I personaggi si intrecciano con i loro punti di vista, con le loro storie, tessendo una trama da un lato carica di perdite, di morte, di distanze, dall’altro fitta di desideri, di speranze, di adattamenti.
La vicenda vede il susseguirsi di più personaggi: i due giovani studenti universitari, Amir e Noa, che vanno a convivere a El Castel dove legano un’amicizia con i loro padroni di casa, con i coniugi che hanno appena perso un figlio in guerra, dove le loro storie si annodano con quelle dell’amico di Amir che scrive lettere dal Sudamerica e con quelle del muratore arabo Saddiq.
Sembra che Nevo sia interessato alle piccole realtà, a quel microcosmo che brulica di emozioni, di tristezza e di affanni. Un microcosmo a cui fa da sottofondo la guerra con il suo peso inevitabile di sofferenza e di distruzione, che sembra configurarsi come parte della vita, e una serie di attentati tra i quali quello che vede l’uccisione di Rabin, evento storico che domina il romanzo.
Infatti, l’opera, che si srotola all’ombra della perdita e del tormento, sembra rispecchiare tale caos nella sua organizzazione interna, mancando di una omogeneità spazio-temporale, in cui l’azione è convulsa come la stessa scrittura, a tratti smarrita, oscura, nebbiosa, fatta di periodi lunghi che rappresentano l’incessante fluire del pensiero, delle parole.
Anche gli oggetti e l’ambiente sembrano partecipare al dramma dei personaggi che appaiono ad intervalli piegati all’inesorabile scorrere degli avvenimenti
“Ma la cosa più tremenda è che ormai non sconvolge più”.
Difatti, così si esprime Amir relativamente ad un attentato nelle ultime pagine del romanzo parlando al telefono con Noa, la quale aveva abbandonato quel luogo di pesanti quotidianità per trovare quella quiete e quell’equilibrio fisico e mentale che tanto aveva agognato. Ed è proprio Noa la ragazza che rifugge “i posti ordinati perché la fanno sentire in prigione”, spingendola a “cercare la fuga, l’evasione”. E così, quasi assillata dagli spazi troppo strutturati e dall’organizzazione degli ambienti, Noa trasforma il bisogno di spazio creativo in impeto, veemenza senza controllo, come se la sua ricerca schivasse in qualche modo la realtà claustrofobica della guerra con tutte le sue restrizioni. Infatti, quando la ragazza si affranca dal dolore di Amir e dai luoghi che le toglievano il respiro, si meraviglia di “quanto spazio si libera nel corpo”, quasi a volere dire che il suo corpo fosse il depositario fisico delle circostanze opprimenti di cui era succube.
In un simile contesto, la paura innerva le pagine narrative diventando in tal modo fedele compagna di ogni figura presente tra righe. All’inizio della terza stanza, il racconto si apre con un attentato ed appare subito chiaro come la realtà storica condizioni la vita sociale esacerbando la sensibilità di coloro che la vivono. Accade così che ad esempio il muratore Saddiq teme persino di prendere un autobus o addirittura le madri “sentono nel loro corpo, ancor prima che gli ufficiali vengano a bussare alla porta” che il loro figlio è morto in guerra.
E forse sarà accaduto proprio questo alla madre del piccolo Yotam, una donna che ha perso il figlio in guerra e che vive costantemente nel terrore di perdere anche il più piccolo poiché condizionata psicologicamente dal cordoglio e dal tormento che comprensibilmente non ha superato e che non potrà mai superare. Lo si nota nelle pagine in cui il bambino si perde al centro commerciale, passo in cui ricorre una frenesia di azioni che mira soltanto al ritrovamento del piccolo con cupa e disperata determinazione.
Yotam vive anche lui sulla sua pelle la memoria di un tempo perduto, costellato di un’amara nostalgia per i suoi genitori, per quelle premure di cui non è più il destinatario, dileguate con l’assenza del fratello che ha generato un dolore che non cede spazio ad altro. I ricordi effettivamente sembrano accendersi al semplice contatto con il corpo o si dispiegano nel dolore generando demoni, così come capita ad Avram che, non riuscendo ad elaborare il lutto per la perdita del suo primo figlio, lo scambia con l’arabo Saddiq, in una densa quanto teatrale tessitura narrativa.
In una tale ambientazione, ecco che al tema della nostalgia si lega inflessibilmente quello del ricordo e della dimenticanza, che talora diventa una virtù perché a volte è meglio dimenticare per non portare incisi i segni dell’amarezza e del disincanto rispetto ai progetti che si sarebbero voluti realizzare. A farle da eco la musica, sia quella reale, quella dei ritornelli lunghi, presenti quattro volte nel testo, sia quella interiore che “risuona continuamente dentro il corpo, a basso volume, ed è questa che stabilisce il ritmo con cui uno pensa, ama, scrive e s’appassiona”.
La scrittura di Nevo non registra gli avvenimenti ma si mimetizza nel parlato o, meglio, dà concretezza alle voci che si alternano nel racconto come a volerle incidere nella pagina a testimonianza del vortice di sensazioni, pensieri e riflessioni di ciascuno dei personaggi. La scrittura scolpisce le parole dette come se si prendesse coscienza dei fatti a mezzo di una penna, come se la parola, e in modo particolare quella ebraica, fosse la vera prova delle sfavorevoli contingenze, ne rendesse possibile la percezione reale e le liberasse da un sogno, concretizzandole. Il tono della scrittura si piega, allora, su un versante malinconico e commosso che è spia di un’intima partecipazione dell’autore alle vicende dei personaggi.
In Nostalgia talvolta la consolazione degli esseri umani è affidata a Dio, ma senza ostentare un obbligo morale, in modo che la volontà personale sia declinata al volere del caso o di Dio e ci si aggrappi alla religione per trovare un’effimera armonia o un porto sicuro. Ma, a volte, nel turbinio della guerra e dell’incertezza, anche credere in Dio non è così scontato. Infatti, quando Modi in una lettera al fratello gli descrive la visuale in cima all’Inihama, gli comunica che “per tanta bellezza ha persino nutrito il sospetto che Dio esista”.
Talvolta, però, la divinità può anche essere la coscienza che, provata dal rumore esterno, quello della precarietà, delle bombe, dell’insoddisfazione, offusca quella “voce interiore che dice cosa sia giusto e cosa no, che cosa sia vero e cosa sia falso, che cosa sia importante e cosa non conta”.
In questo alternarsi di disorientamento e speranza, si schiude alla coscienza del lettore un ritratto di una società in subbuglio, dove il sogno si confonde con la tangibilità, la nostalgia per chi non c’è più genera demoni fino a corrompere la mente di chi ne è vittima e ogni rievocazione inchioda il personaggio ad un tempo passato e che non può più tornare. Ed è proprio la nostalgia che si impossessa di Saddiq quando entra nell’abitazione di Sima, casa che aveva abitato cinquant’anni prima. Sotto indicazione della madre, lui prende la catenina d’oro che si tramandavano le donne della sua famiglia. Viene arrestato e di lui non si ha più notizia.
Allora l’oggetto, la collana, diventa il simbolo del passato, veicolo di suggestioni che sublimano il ricordo fino a farlo rivivere in Saddiq che, in nome di quella memoria, compie azioni al limite della legalità, portandolo dietro le sbarre di una prigione che ammutolisce per sempre la sua voce. Infatti, da quel momento in poi, Saddiq non parla più.
Attraverso questo coro polifonico di anime che interpretano, ognuna a modo proprio, le varie sfaccettature della nostalgia per qualcuno o per qualcosa, Nevo, con brillante maestria, ha dipinto il profilo di una società disillusa, prostrata, al culmine della sopportazione e, allo stesso tempo, arresa ad una realtà che non si può controllare ma, forse, solo accettare.

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[…] La nostalgia polifonica narrata nel romanzo d’esordio di Eshkol Nevo. […]
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