Una settimana di letture #132

Sono da poco tornata da un viaggio di una settimana in Portogallo: 7 giorni che non bastano certo per rivelare la natura di una nazione o di un popolo. Non vi racconterò quindi com’è il Portogallo o come siano i portoghesi, ma voglio condividere con voi come io l’ho vissuto. Il Portogallo è il paese delle esplorazioni marine, e l’oceano su cui si affaccia è stato protagonista della sua storia tanto quanto lo è stato del mio soggiorno.
Arroccato sulle pendici di una spiaggia dorata, incastonata tra due promontori, l’appartamento scelto guardava un oceano mai sereno, sempre increspato dalle onde, la cui risacca gorgoglia ad ogni ora. Un vorticoso susseguirsi di stagioni ha contraddistinto quei 7 giorni a Praia Azul – questo il nome della baia a 60 km da Lisbona. Laggiù, all’estremo occidentale dell’Europa, il clima cambia a un ritmo vorticoso: estati, primavere e autunni si rincorrono da un’ora all’altra, da una città all’altra.
Mi è capitato di svegliarmi con le braccia infreddolite perché troppo coraggiosamente lasciate fuori dalla coperta spessa. Poi mi alzavo, aprivo la veranda e osservavo come cielo e oceano fossero nascosti da un consistente strato di nebbia. Del sole non v’era traccia; il vento portava alla terraferma il profumo del mare. Eppure, bastava spostarsi appena un po’ nell’entroterra o a sud per ritrovarsi di nuovo in piena estate: il sole picchiava senza indugio, le strade erano bollenti, la macchina segnava incurante 40 gradi.

La sera si tornava in primavera, con tramonti meravigliosi, tinti di rosa e indaco; lunghissimi, languidi, sfarzosi. Nel frattempo, la temperatura scendeva di nuovo, toccava i 17 gradi, e il vento si alzava: presto era tempo di rientrare e chiudere le imposte.
Sono tanti i luoghi straordinari che sono riuscita a visitare, di alcuni vi parlerò; ma nulla mi rimarrà più impresso di questo ambiente sempre in evoluzione, tra un estremo e l’altro.

Ogni giorno, per 7 giorni, ho avuto davanti a me lo stesso oceano, la stessa lingua di terra, lo stesso orizzonte; eppure ogni cosa mutava. Anche se mai piatta, l’acqua talvolta si rasserenava e allora nuotare nell’oceano diventava un gioco di spruzzi, immersioni, correnti e bracciate! Imparagonabile al Mediterraneo, questo mare ti tiene sul chi vive. L’acqua è fresca, pizzica la pelle, è densa, e non ti puoi fidare. Impossibile fluttuare sulla schiena ad osservare il cielo o scrutare i fondali alla ricerca di fauna marina. Nell’oceano non ci si entra di corsa, schizzando i bagnanti, buttandosi con impeto, impazienti di trovare refrigerio dalla calura. No. Nell’oceano ci si entra a piccoli passi, abituando il corpo alla temperatura non certo comoda. Si aspetta sul bagnasciuga, si osserva l’orizzonte, si aspetta prima un’onda, poi l’altra, per tastarne la forza. E allora, quando la senti schiantarsi contro le caviglie, contro le ginocchia, l’oceano ti avverte che lì non sei che un ospite, che tra le sue pieghe ci entri a tuo rischio, che sarà un gioco tra te e lui. Che ti stai insomma misurando con qualcosa di fragorosamente più grosso di te.
Se il Mediterraneo accoglie, culla e prende per mano, l’Atlantico ti sposta. Lo fa già sul bagnasciuga, quando il primo impatto costringe i muscoli a contrarsi per non perdere terreno. Così rinunci alle bracciate sotto il sole che ti portano lontano, là dove non tocchi; preferisci avere un appiglio, non ti fidi a perdere del tutto il contatto con la terra. Ma un po’ nuoti lo stesso, perché, dopotutto, come rinunciare a quel gioco di onde? Le rincorri, aspetti che arrivino. Sono grosse, fragorose e birichine: non sai mai quando si infrangeranno. Quando il loro dorso è ancora immacolato, ci si può passare sotto: per un momento il mondo scompare; ovattato, il corpo sprofonda e si lascia spostare dai flutti che carezzano la schiena.

A volte, però, sei troppo vicino alla riva e la cresta bianca si infrange davanti a te. Ti colpisce in pieno e non puoi che ridere dell’acqua salata che ti entra nelle narici, della forza che ti trascina dove vuole lei. Ricordo quei due pomeriggi trascorsi in spiaggia in costume; tuttavia, come dimenticare una passeggiata autunnale fatta una sera di metà settimana? Soffiava il vento, implacabile; spesse nuvole grigie ricoprivano il cielo; la spiaggia, quella stessa spiaggia in cui avevo preso il sole, in mezzo a famiglie e surfisti, era deserta. Avevo freddo, sebbene fossi vestita con felpa e giacca, e l’oceano davanti a me roboava; uno stormo di gabbiani fissava annoiato sulla sabbia le onde avvicinarsi sempre di più alla riva.
Ruvido. Non saprei come altro descrivere quel paesaggio sublime, per certi versi spettrale: le acque erano torbide dalla sabbia sollevata dalla marea, l’aria pungente bagnata dalle gocce che si alzavano dalla mareggiata e si mescolavano a una pioggia flebile, forse intimidita dallo smuoversi dei flutti.
Ecco, come vi dicevo all’inizio, non posso dirvi com’è il Portogallo; posso solo dirvi come io l’ho vissuto. Ed è stato così: un continuo muoversi, cambiare, adattarsi, meravigliarsi.
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