Briciola di filosofia #32
Cinici di ieri e di oggi

Dare oggi a qualcuno del cinico significa condensare in un unico termine tutta una serie di significati che di volta in volta valgono impudente, sfacciato, beffardo, sprezzante, spregiudicato, indifferente, insensibile al dolore del mondo (non so perché mi viene in mente Matteo…). Ma oltre quest’uso volgare, il termine ha invece una rispettosa ascendenza nell’omonima scuola, dove solo alcuni di quegli atteggiamenti erano presenti, ma corroborati dalla riserva sulla possibilità di una conoscenza sicura. Più che disprezzo schifato del mondo, essa operò invece una corrosione dei valori di una civiltà scissa tra il vecchio e il nuovo. Inteso così, davanti all’attuale crisi di ideali in un mondo che sembra andare a catafascio, e una storia che sembra aver smarrito ogni logica, oltre alle posture snob non nego che una forma di disincantato cinismo potrebbe avere anche oggi una sua ragione di essere. Ma vediamolo intanto storicamente più da vicino.
La scuola cinica
La scuola cinica fu fondata da Antistene (444-365 a.C.) nel ginnasio ateniese di Cinosarge (cane agile), da cui i seguaci presero nome e costume, sia per la semplicità della loro condotta che per la tendenza a ringhiare contro chiunque li irritasse. Sicché presto sul senso etimologico si impose quello di un atteggiamento che orientava verso sentieri della pratica la morale teorica da cui prendeva le mosse.
Negazione della scienza
Memore del fatto che prima di seguire Socrate era stato discepolo di Gorgia, da cui aveva appreso a gustare le prelibatezze della dialettica, come già Euclide di Megara anche Antistene fu portato a negare la scienza della definizione. Se i nomi rappresentano il punto di partenza della conoscenza, e ognuno ha valore individuale, è esclusa l’esistenza di concetti universali. E se la sola predicazione possibile è quella di identità, come la neve è la neve, non ha alcun senso logico dire che la neve è bianca, poiché solo i nomi sono comuni, mentre le realtà sono particolari. Ne consegue che sono possibili solo giudizi in cui il soggetto è identico al predicato (l’uomo è uomo), i cui elementi possono essere solo nominati ma non esistono in senso universale. Da qui la famosa critica alla dottrina delle idee di Platone, a cui Antistene obiettava di vedere sì i singoli cavalli, ma non la cavallinità.
Virtù pratica
Se i giudizi logici non hanno valore, la dottrina gnoseologica, con la riduzione a nominalismo, condiziona anche la morale dei cinici, per i quali l’identificazione socratica tra scienza e virtù vale solo nel senso che la conoscenza è in funzione della prassi, da cui consegue la svalutazione di ogni sapere teorico e disinteressato. Se ogni contenuto intellettuale è superfluo, superflue sono anche le convenzioni e le regole sociali che schiavizzano l’uomo. Ecco allora perché la virtù non è più intesa come principio ideale, ma come saggezza operativa. Virtù è quella che fornisce la soluzione al problema pratico della felicità, consistente nel dominare gli istinti e contenere i bisogni, fino a renderci indifferenti alle cose del mondo. Virtù è vivere in modo autosufficiente e indipendente, in perfetta autarchia, perché solo nell’assenza di passioni (apatia) e desideri, il saggio è libero rispetto ai beni esterni, di cui non sente il bisogno.
La figura più pittoresca
Come ben mostra la pittoresca figura di Diogene di Sinope (412-323 a.C.) che non so perché mi ricorda certa posa di Mauro Corona, il rappresentante più emblematico della scuola, di cui si narrano diverse leggende: che per disprezzo del lusso abitava in una botte (magari con vino); che gettò via la ciotola quando si accorse che poteva bere nel cavo della mano (a canna, e ci sta); che ad Alessandro Magno che gli chiedeva cosa poteva fare per lui, con sommo disprezzo per il potere, rispose di levarsi dal… sole. Al che il grande condottiero, ammirato, secondo Plutarco avrebbe risposto da par suo: se non fossi Alessandro, vorrei essere Diogene… Degna di nota, e altrettanto celebre è l’altra leggenda per cui era solito andare in giro di giorno con una lanterna. E a chi gliene criticava l’inutilità, rispondeva tra il salace e il grottesco: cerco l’uomo. Con ciò intendendo non un criminale latitante, come farebbe un commissario di polizia, ma uno vero, che per i suoi parametri altro non poteva essere che l’uomo libero da tutte le convenzioni e i pregiudizi sociali.
Cappuccini dell’antichità
Questa suprema indifferenza alle cose del mondo, questo moralismo ascetico per cui i cinici sono stati definiti “cappuccini dell’antichità”, non si ottiene per caso, ma è il risultato di uno sforzo continuo e di un pervicace esercizio di volontà. Ecco perché i cinici vedono in Ercole un eroe ideale. Le sue celeberrime fatiche sono metafora degli sforzi per liberarsi dai vincoli di una società che, suscitando sempre nuovi bisogni, richiede un costante lavoro di vigilanza. Di qui il rifiuto delle convenzioni istituzionalizzate della famiglia e dello Stato, per uno stile di vita affrancato ed elementare. Di qui la conquista di un’audace libertà di parola, e la coerenza di una morale ugualitaria e antischiavista, cosmopolitica e universalistica (quanto più avanzata di quella dei nostri giorni!). Di qui ancora il loro atteggiamento predicatorio, da cui scaturirono dialoghi, satire, esortazioni e diatribe, che contribuirono al travaso dei loro modi meno folkloristici e più genuini nel futuro stoicismo.

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