L’arringa finale di Socrate

Briciola di filosofia #35

5–7 minuti

Tra le opere giovanili di Platone un posto a sé occupa, sia per la forma che per il contenuto, L’apologia di Socrate. Ché se da un lato il dialogo vi è sostanzialmente assente, dall’altro forse assistiamo al punto di maggiore convergenza tra la figura letteraria e quella reale del maestro, così da poter ritenere abbastanza fedele questa trascrizione dell’arringa pronunciata da Socrate nel tribunale che ne decretò la condanna a morte.

A giudicare dall’esito, si potrebbe pensare ad un’autodifesa fiacca e inefficace. Invece, a considerarla più da vicino, si capisce chiaramente quanto l’intento di Socrate, più che sottrarsi alla pena, sia quello di ribadire alcune sue peculiarità che ritroveremo nei dialoghi successivi. A partire dalla famosa ironia con cui, contro l’accusa che lo dipinge come un astuto oratore, avverte che parlerà alla buona, senza fronzoli e orpelli retorici, come un probo cittadino che non sa dire altro che la verità. E pertanto denuncia che la ragione che ha spinto gli avversari (il poeta Meleto, il politico Anito e l’oratore Licone) a trascinare in tribunale chi ha passato l’intera esistenza a filosofare e a discutere, va cercata in un misto di invidia, gelosia e sospetto verso la sua lingua pungente e corrosiva. Le accuse recenti da essi addotte si innestano cioè sulla causa primaria, sorta allorché l’oracolo di Delfi, richiesto se in Atene vi fosse qualcuno più sapiente di lui, aveva risposto di no. Ritenendolo impossibile, Socrate si era allora messo alla ricerca di qualcuno più sapiente. Con quello spirito aveva interrogato prima i politici, scoprendo che però ignoravano ciò che pretendevano di sapere; era poi andato dai poeti, per scoprire che non sapevano neanche di cosa stessero poetando; e lo stesso gli era capitato con artisti e oratori. Finché aveva dovuto riconoscere che davvero il più sapiente era lui: nel senso che, mentre quelli sfoggiavano solo una certa presunzione, la sua chiara superiorità consisteva nel sapere di non sapere, che altro non era che il principio stesso della conoscenza.

In questo modo si era però attirato l’odio e l’inimicizia di tutti coloro di cui aveva messo in luce l’ignoranza, e che avevano perciò mosso contro di lui una serie di accuse pretestuose, innestandole sul pregiudizio già denunciato da Aristofane che si trattasse di uno “che specula sulle cose celesti, investiga i segreti di sotterra, e fa apparire più forti le ragioni deboli”. Ciò per cui Socrate era bollato, insomma, era il suo atteggiamento nei riguardi della tradizione e dell’educazione, col biasimo di non credere agli dèi e di volerne introdurre dei nuovi, dandogli facilmente agio di rilevare la contraddizione. Come avrebbe potuto insegnare cose di cui non aveva nessuna competenza, essendo ignorante e non un tuttologo? E come poteva essere ateo e volere al tempo stesso introdurre nuovi dèi? A meno che non ci riferisse al suo dichiarato daimon, ossia un principio interiore che gli impediva di compiere il male, ricordandogli di vivere nella giustizia e di perseguire la propria libertà ascoltando solo la voce della coscienza.

Quanto all’altra accusa, di corrompere i giovani, Socrate ribadì che essa poteva venire solo da chi non aveva nessun’idea di cosa significasse educare. Ancora una volta, come poteva corrompere i giovani chi non aveva nulla da insegnare? Era possibile, del resto, che proprio lui che si proponeva di rendere migliore gli ascoltatori, fosse il solo corruttore della gioventù tra tutti i venditori di bubbole di Atene? E come mai i genitori non protestavano? E anzi lo ascoltavano spesso anche loro, comprendendo che il suo solo scopo era quello di agire per il bene della società, perseguendo la verità e non il compromesso: che era poi la ragione per cui non si era dato alla politica, per distacco dai beni terreni che il saggio non deve curare.

Malgrado questa nobile autodifesa, il verdetto dei giudici fu comunque di colpevolezza. Su 500 votanti, 220 furono a favore e 280 contro, dandogli occasione di ironizzarre sull’inadeguatezza di una votazione dove una manciata di voti (e poteva anche essere uno solo!) decideva dell’innocenza o della colpa. Ma poi, siccome le leggi del tempo concedevano al condannato di avanzare una proposta di pena, magari col ricorso a qualche cavillo attenuante, provocatoriamente disse che se andava commisurata alla sua azione di benefattore, la “pena” adeguata sarebbe stata il suo mantenimento a spese pubbliche nel Pritaneo. E fu questa amara sfrontatezza a perderlo definitivamente, sdegnando anche i giudici che inizialmente avevano votato a suo favore, così che il secondo verdetto ne decretò quasi all’unanimità la morte.

Socrate accettò la sentenza, ribadendo che la vera condanna non era la sua ma di chi accusava un innocente. Ai magistrati rimproverò la vergognosa cecità di aver voluto fargli del male, mentre nulla può capitare all’uomo giusto; e di essere stati impazienti, poiché se solo avessero aspettato ancora un po’, per via della sua età ci avrebbe pensato la natura a sbarazzarli della sua presenza. A coloro che avevano votato a favore ricordò che non temeva la morte, poiché si può temere solo qualcosa che si sa essere un male, mentre la morte è come un profondo sonno senza sogni. Ché se invece dovesse trattarsi della trasmigrazione in un altro mondo, cosa c’è di più gratificante che ritrovare nell’Ade gli eroi e le anime magnanime che ci hanno preceduti, e conversare con loro?

E sereno si avviò verso il suo destino.

          “Ma vedo che è tempo ormai di andare, per voi a vivere e per me a morire. E chi di noi vada verso il meglio è oscuro a tutti, tranne al dio”.  

Nella restaurata democrazia, dopo la parentesi dei trenta tiranni, questa sentenza può sorprendere chi vi vede il superamento dell’arbitrio autoritatio nel trionfo della giustizia e dell’equità. Ma anche in un sistema democratico le personalità come Socrate risultano scomode, quando per sete di giustizia e presunzione si danno il compito di svegliare i cittadini dal torpore mentale, e con finta umiltà si ingegnano a smascherare e sferzare l’ipocrisia. E uno come Socrate doveva inoltre risultare veramente insopportabile, per quella sua eterna azione di “tafano” esercitata con la spocchiosa ironia di chi non dubita della sua verità. Sbarazzandosi di lui, Atene dovette credere di liberarsi di un rompipalle tremendo, perché tale risulta chi dice cose scomode e controcorrente, con affilato acume critico e un’intransigenza ai compromessi assolutori affine al dogmatismo. Ci resta ora da vedere nei dialoghi successivi gli ultimi istanti della sua vita, prima di recuperare a ritroso, quando il personaggio storico sarà diventato solo il portaparola di Platone, tutte le altre stimolanti questioni con cui Socrate tempestò le orecchie degli ateniesi, prima di bere la cicuta.


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Un commento

  1. […] Nella briciola precedente avevamo assistito all’autodifesa che Socrate pronunciò in tribunale, e alle ragioni per cui fu condannato. Ciò che accadde dopo il processo ci è invece narrato in altri due dialoghi di Platone, il Critone e il Fedone, strettamente collegati alla vicenda, seppur composti in tempi diversi. Da essi apprendiamo che la condanna a morte non poteva essere eseguita prima del ritorno della nave sacra che ogni anno veniva inviata a Delo per ringraziare Apollo di aver aiutato Teseo contro il Minotauro. E siccome per tutta la durata del viaggio, circa un mese, la città doveva conservarsi pura, sospendendo le esecuzioni e le guerre, tanto dovette attendere Socrate in prigione, proseguendo l’abituale consuetudine di discutere con discepoli e amici in un regime di relativa autonomia.  […]

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