
Sin dal 1839, quando furono inventati gli strumenti che la resero possibile, la fotografia ha corteggiato la morte. Poiché un’immagine ottenuta con una macchina fotografica è, letteralmente, la traccia di qualcosa che è stato posto davanti all’obiettivo, le fotografie si rivelarono superiori a qualunque dipinto nel fornire un memento di un passato svanito o di un caro estinto.
Catturare la morte in fieri, però, era tutt’altra faccen-da: il raggio d’azione della macchina fotografica restò limitato finché fu necessario trascinarsela dietro, posizionarla, renderla stabile. Ma con le macchine davvero portatili, emancipate dal treppiedi e dotate di telemetro e di una serie di obiettivi che consentivano inaudite prodezze di osservazione ravvicinata a distanza di sicurezza, la fotografia acquisí un’autorità e un’immediatezza superiori a quelle di qualunque resoconto verbale nel trasmettere l’orrore della morte prodotta in massa. Se mai ci fu un anno in cui la capacità della fotografia di definire, e non soltanto registrare, le realtà piú abominevoli ebbe la meglio su qualunque narrazione, per quanto complessa, quell’anno fu di certo il 1945, con le fotografie scattate ad aprile e all’inizio di maggio a Bergen-Belsen, Buchenwald e Dachau immediatamente dopo la liberazione dei campi, e con quelle realizzate da testimoni giapponesi come Yosuke Yamahata nei giorni successivi all’incenerimento della popolazione di Hiroshima e Nagasaki, all’inizio di agosto.
Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri

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