
Studiare il russo
È curioso. Già da tempo mi proponevo di riprendere a studiare la lingua russa. Ci avevo provato intorno ai vent’anni, sotto l’entusiasmo per la sua grande letteratura che allora divoravo; ma mi ero poi arenato davanti allo scoglio del cirillico, dimenticando col tempo quel poco che avevo imparato. A rimotivarmi alla ripresa, per una di quelle bizze a cui vado soggetto, più che l’attualità internazionale è stato un evento musicale. E come allora, a spingermi verso il tedesco, insieme al culto di Goethe era stato l’universo sonoro di Beethoven e Wagner, così ora mi è ricapitato col Boris Godunov, che pur conoscendo beninteso da anni immemorabili non ero mai stato in grado di rizufolarmelo come Verdi, Wagner o Puccini, proprio per l’ostacolo della lingua. E pur amando nella partitura musorgskijana brillantemente strumentata da Rimskij la ricchezza di temi popolari, compreso quello già usato da Beethoven nel quartetto op. 59 n. 2, nel recente riascolto ho sentito l’improvviso fastidio di non penetrare direttamente il testo. Da qui il frizzo (non vi sorprenda, a una certa età si diventa ingordi come bambini!) di risalire all’originale di quel Puškin di cui oggi ricorre l’anniversario della morte, riprendendo alla mia veneranda età lo studio del russo, alla faccia di chi ritiene i neuroni già atrofizzati: con l’ambizione di intonare anche l’eterno lamento del popolo sottomesso o il tormentato logorio del protagonista di questo capolavoro dell’arte.
Una produzione feconda
Di Alexandr Sergeevič Puškin, oltre La figlia del capitano e La rivolta di Pugascëv, conoscevo beninteso già il teatro, i poemi e le fiabe; conoscevo l’intrigante Mozart e Salieri che aveva varato la leggenda del genio vittima dell’invidia di un rivale, e mi aveva divertito la blasfema Gabrielliade, in cui l’arcangelo, oltre a portare l’annuncio a Maria, si sostituisce allo Spirito Santo…). Avevo letto inoltre le poesie e molti racconti; eppure, onta su me! pur amando l’opera che Ciajkovskij ne aveva tratto, fino a poco tempo fa non avevo ancora letto interamente il suo lavoro forse più emblematico.
Un romanzo singolare
Scritto tra il 1822 e il 1831, Eugenio Oneghin solo dopo la morte dell’autore si impose a capostipite del grande romanzo russo, non solo inaugurando insieme a Un eroe del nostro tempo di Lermontov la serie di “tipi superflui” di cui quella letteratura abbonda, ma inoculando nel protagonista, più che la noia oblomoviana, uno spleen direi esistenziale. Suddiviso in otto capitoli (più alcuni frammenti) di 389 stanze, ognuna di 14 tetrametri giambici (con poche eccezioni), il racconto fonde in un ininterrotto flusso di epicità e lirismo le suggestive atmosfere wertheriane e byroniane, non occultate nemmeno nell’infelice traduzione de “I Meridiani” fatta da Giovanni Giudici: il cui esplicito intento di rendere arbitrariamente la tetrapodia giambica in un metro oscillante tra novenari, ottonari, decasillabi e settenari, schiacciando le rime in banali assonanze, non è riuscita a velarmi la bellezza di fondo.
La vicenda
Eugenio Oneghin è un “giovin signore” orfano, scettico, egoista, annoiato di tutto e di tutti, e già nutrito dal disincanto che l’esistenza gli sia sfuggita di mano. Giunto a Pietroburgo insieme all’amico Lenskij, il poeta alter ego con cui condivide bagordi e avventure, frequenta la casa della signora Larin che vive in campagna con due figlie: Tatiana, romantica e malinconica, e Olga, allegra e vivace. Con quest’ultima si fidanza Lenskij; mentre Tatiana, affascinata dall’inquieta e fatale bellezza di Oneghin, si invaghisce di lui, al punto da chiedergli un incontro privato. Frustrando però ogni sua speranza, il giovane le raccomanda di non sprecare i migliori anni nell’attesa di qualcosa che lui, nella sua aridità, non può darle. E mentre Tatiana si rassegna senza pertanto smettere di amarlo, Oneghin, spinto da un suo demone interno, durante un evento mondano corteggia blandamente Olga, suscitando la gelosia e lo sdegno di Lenskij, che gli lancia il guanto di sfida. Nel duello che ne segue Oneghin uccide l’amico, per poi disperarsi per essersi privato della metà di se stesso, e fugge perseguitato dai rimorsi. Tornato a Pietroburgo dopo anni di peregrinazione, abbacinato da Tatiana, che intanto da provinciale è diventata una gran signora, tenta di aprire quella relazione che una volta aveva rifiutato. Ma ora è lei, sposata peraltro a un commilitone di Oneghin, a non essere disposta. E in un discorso a sua volta franco e nobile gli dice che la loro occasione è svanita, e benché lo ami ancora non accetterà mai di tradire l’uomo che ha sposato.
Un’ininterrotta elegia
Di singolare, in questa storia tutto sommato semplice, c’è l’incursione costante dell’io narrante nel racconto, dove inserisce squarci di emozioni vissute durante la composizione, gettando nella narrazione realistica il collante della sua evoluzione. E aggiorna il lettore non solo sull’eterna insoddisfazione che lo spinge di regione in regione, tra esperienze deludenti e l’incapacità di elaborare nuove illusioni. Ma ciò che maggiormente sorprende è che un poeta poco più che ventenne sciolga con tanta insistenza l’elegia sul tempo andato, sui sogni svaniti, e sulla dissoluzione di un’epoca che, malgrado errori, capricci e follie, ha lasciando l’amaro gusto della stagione più bella perché irrimediabilmente perduta. C’è chi in questo inquieto vagabondaggio avverte echi del Childe Harold: e in parte è vero, se si considera però che Byron non smette mai di atteggiarsi a personaggio, per edificare il mito di se stesso. Non è questo il caso di Puškin, il cui peregrinare più che al futuro è volto al passato, con un rimpianto così struggente e sincero che lo apparenta piuttosto a Leopardi, perfettamente suo coetaneo, essendo nato solo un anno prima. E a perseverare con la cabala resta che nel duello di Oneghin (come nel racconto Un colpo di pistola e ne La figlia del capitano), Puskin aveva descritto la propria fine; e che il colpo al cuore sparato da un rivale in amore lo stroncò all’alba del 10 febbraio di quel fatale 1837 in cui la morte, a distanza di pochi mesi, reclamò a sé anche Leopardi, sottraendo alla letteratura due dei suoi più grandi poeti.

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