Briciola di filosofia #37
Dopo l’uscita di scena di Socrate, senza dimenticarne l’insegnamento Platone prese ad esporre il proprio pensiero, inizialmente inestricabile da quello del maestro e poi sempre più autonomo, fino a condurlo sulle vette più ardue, di cui i primi dialoghi, se pure ne sono ancora lontani, già incominciano a porre le basi. E anche se alcuni sono di poco peso, tra quelli che per una ragione o per l’altra anticipano tematiche mature si situano i due dialoghi che accanto a Socrate vedono come protagonista Alcibiade, uno degli uomini più influenti e controversi del tempo.
Un giovane viziato e ambizioso
Ma chi era questo signore, che ebbe con Socrate così stretti rapporti da giustificare l’accusa di corrompere i giovani? Essa, infatti, più che alle loro presunte pratiche omoerotiche, poggiava sull’evidenza che proprio dal suo insegnamento deleterio erano emerse personalità discutibili come Crizia e appunto Alcibiade, e che a sentire Senofonte fu la vera causa scatenante del famoso processo. Certo è che durante la guerra del Peloponneso questo individuo mutò più volte casacca: e inizialmente fautore di un’aggressiva politica estera, allorché fu accusato di sacrilegio per la mutilazione delle erme (teste scolpite su pilastrini quadrangolari su cui a volte erano rappresentati anche i genitali maschili), passò dalla parte di Sparta, giocando un ruolo determinante nella sconfitta di Atene. Espulso quindi anche da Sparta riparò in Persia, prima di essere richiamato nuovamente in patria. Proprio per questa disinvoltura di posizionamento le valutazioni degli antichi oscillarono dall’opportunista allo statista per l’uomo che, malgrado le enormi qualità, non aveva saputo dissimulare col fascino la disposizione demagogica di un traditore senza scrupoli.
L’Alcibiade primo

A questo influente soggetto Platone non solo riservò un ruolo significativo nel Simposio e lo ricordò nel Protagora e nel Gorgia, ma, pur convinto che il suo tradimento non derivava dall’insegnamento di Socrate quanto piuttosto dal fatto di averlo abbandonato, lo rese protagonista di due dialoghi giovanili. Tralasciando tuttavia l’Alcibiade secondo, di attribuzione spuria e poco originale, a interessarci qui è soprattutto l’Alcibiade primo, in cui lo scorgiamo giovane e bello, ricco e di nobile famiglia, mentre si dispone all’ingresso in politica. Ancora inesperto, con un’arrendevolezza ben lontana dalla determinazione futura ma con brama di onori nella pretesa di consigliare i concittadini su questioni gravi come la guerra, si rivolge a Socrate per chiedere lumi. Subito suscitandone però la riserva che, se il solo campo su cui si possa dare consigli è quello in cui si è sapienti, mai Alcibiade, che non ha imparato altro che il flauto, potrebbe dare lezioni di strategia politica e militare. Che può mai saperne lui se una guerra è giusta o opportuna? E come potrebbe essere buon consigliere chi non possiede le doverose nozioni del giusto o del meglio su cui si fonda la vita associata? O chi mai gliele avrebbe insegnate?
Il criterio della maggioranza
In un primo momento Alcibiade si barcamena, dichiarando di averle apprese da solo. Ma ancora rintuzzato da Socrate che può cercare la verità solo chi sa di non sapere, contrariamente a lui che fin da bambino ha sempre spacciato sicumera, il giovane riconosce di essersene fatto un’idea, come tutti, dall’opinione della maggioranza. Dando a Socrate l’agio di contestare che in una questione cruciale come la giustizia non ci si può affidare agli sproloqui della massa, la cui pluralità non fa che confermarne appunto l’approssimazione. E siccome quando deliberano sui massimi affari gli uomini pensano in termini di utilità e di danno, senza riflettere che l’utile non si può perseguire senza il giusto, pur costretto a riconoscere i suoi errori nella presunzione di sapere cose che invece ignora, Alcibiade considera che se così è significa che gli altri sono ignoranti quanto lui, e dunque potrà prevalere se non altro contando sulle sue doti naturali.
Ignoranza dei governanti
Ma ancora una volta Socrate gli contesta che, per farlo, dovrà comunque prima capire cosa si intende per buon governo, che non è, come il giovane crede, quello in cui non ci siano fazioni, e dove i governanti hanno un rapporto di amicizia. Spesso infatti gli uomini sono d’accordo su cose che non gli competono, mentre non lo sono quando ognuno fa le cose di propria competenza: col risultato che uno stato fondato su quello che oggi diremmo “amichettismo” è uno stato in cui nessuno riesce a fare quel che gli compete. La questione è che ogni uomo, prima di impegnarsi nell’azione pubblica, dovrebbe conoscere se stesso, in osservanza al famoso motto delfico. Se Alcibiade vuole davvero migliorare lo stato, è prima di tutto della propria anima che deve occuparsi, poiché un buon governo si realizza solo quando è formato da uomini virtuosi, che conoscono il bene e intendono perseguirlo, raccomanda Socrate. Senza tuttavia mancare di sollevare certo profetico scetticismo non solo verso Alcibiade, ma verso tutti quei governanti che, risucchiati dalla micidiale calamita del potere, hanno rinforzato con secolare consuetudine il rassegnato adagio per cui chi va al mulino s’infarina…

Iscriviti per non
perdere i nostri articoli
Unisciti gratuitamente a centinaia di nostri abbonati e abbonate, e sii il primo a conoscere nuovi contenuti.
