Raoul Precht, uno scrittore sulle tracce di Sternheim

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Carl Sternheim, chi era costui? A squarciare il silenzio che da troppo tempo abita la figura di questo singolare e vulcanico intellettuale teutonico è ora Raoul Precht con un’opera che appare in quella Collana S-Confini della partenopea Editoriale Scientifica diretta da Fabrizio Coscia sempre più vivace di anno in anno con testi “ibridi”, dove letteratura, saggio, diario di viaggio, memoir, flussi di coscienza trovano una felice sintesi fuori da ogni classificazione di genere.

Lo scrittore infedele

Drammaturgo, scrittore, poeta, nato sul finire dell’Ottocento in Germania ma vissuto per gran parte degli ultimi vent’anni in Belgio, l’Espressionista Sternheim ha attraversato la prima parte del “secolo dallo spirito distruttivo”, per dirla con Matteo Marchesini in riferimento al Novecento, portando sulla scena le sue paure e i suoi vizi, le sue allucinazioni e la sua forza: erotomane, affetto da una nevrosi che lo tormentò fino alla morte occorsa nel 1942 per assideramento, con tre matrimoni alle spalle, celebrato e in fretta obliato, vittima sempre più spesso di manie e ossessioni, egli viene seguito con acribia dallo stesso Precht il quale, impegnato nell’elaborazione di un libro sullo scrittore di cui in gioventù aveva tradotto dal tedesco il racconto Schuhlin, come in una sorta di controcanto ci mette parte delle sue stesse esperienze familiari e professionali in una rincorsa a quel sé stesso di gioventù ormai sbiadito. “Quella storia che mi chiamava dal passato – scrive Precht – era riuscita a ridestare la mia meraviglia”: ed è proprio da questo stato d’animo (sconosciuto da tempo) che il libro in questione è abitato e grazie al quale è possibile proseguire in una sorta di ricerca a ritroso quando non a un descensus ad inferos. Sì, perché calarsi nella realtà del tedesco, come abbiamo poc’anzi anticipato, significa penetrare in un magma di difficoltà psicologiche e relazionali, dove malattia e donne non sono mai mancati durante tutta la vita a dimostrazione della sua fragilità. Vissuto in tempo gramo, nella tregenda di due guerre, segnatamente la seconda che peraltro non vide mai concludersi poiché scomparso nel 1942, Sternheim ha assaporato le vette del successo, è stato ambizioso trionfatore sui palcoscenici e nella letteratura, ma non ha saputo gestire la propria debordante, spesso contraddittoria personalità, dilapidata tra vizi e decadenze, come ha probabilmente accennato in quel diario scritto tra il 1931 e il 1940 e dato alle fiamme quando ormai i nazisti si avviavano a conquistare l’intera Europa.  Precht non gli perdona nulla, tuttavia mantiene verso di lui una sorta di ammirazione continua, riemersa dal fondo della propria anima, quasi casualmente, per ridestarsi con impeto: e così nei quartieri di Bruxelles lo troviamo in preda a una vorace volontà di agguantare notizie sulle mosse dello scrittore partendo proprio dal cimitero dov’è sepolto e dove tutta questa vicenda parte e si conclude. Poco o punto interesse per i dati biografici, viene sottolineato dall’autore (per il quale, come per Calvino, questi erano insignificanti in rapporto per esempio alle opere) e massimo impegno spassionato a conoscere l’humus fertile che ha contrassegnato l’epoca belga del soggetto dei suoi studi. Due esistenze si snodano parallele in Lo scrittore infedele, tra velleità frustrate, fitti cahiers de doleances, speranze tradite e sguardo nostalgico sul fecondo passato in un continuo viaggio dentro sé e fuori di sé per lasciare al lettore traccia di una ricerca plurima. Scandagliare il vissuto di un intellettuale porta a collegare fra di loro esistenze, rapporti, relazioni com’è in questo caso: accanto alle mogli e ai figli di Sternheim, infatti, troviamo la singolare figura di un pittore tedesco anch’egli pressoché sconosciuto, Marcel Hastir, vissuto ben 105 anni e sepolto accanto al primo dopo aver condiviso una solida amicizia, riuscì a trasformare il suo atelier negli anni bui dell’occupazione nazista del Belgio in un centro della Resistenza così come strenua lottatrice per la libertà fu Mopsa, una delle figlie dello scrittore tedesco. Già si è parlato del suo debole per le donne: fuori da ogni pruderie o pettegolezzo le pagine del volume offrono uno scorcio delle vicissitudini tra lui e l’universo femminile, delle continue tensioni e dei grandi slanci vitali in un saliscendi che si concluderà solo con la solitudine e la morte.

Schiller, Shakespeare e sé stesso: per Sternheim queste erano le tre figure più importanti in assoluto, ci viene ricordato, ma a differenza delle prime due, rese immortali, per il terzo il velo dell’oscurità non si è ancora del tutto levato. Ed è nei passi finali che troviamo condensato l’ardore e il senso che hanno contrassegnato questo viaggio alla (ri)scoperta di un intellettuale di metà secolo: concedere un poco di spazio alla speranza che, eliminando il buio sulle vite di questo o quell’autore, si possa in qualche misura pensare di salvare il mondo o almeno tentare di aprirsi un varco in quell’indifferenza generale che il nostro tempo ci sta drammaticamente lasciando in eredità. In chiusura ci permettiamo di segnalare il richiamo nel volume a Stefan Zweig, figura di punta del mondo culturale austriaco a cui, non a caso, è dedicato il nuovo lavoro di Precht dal titolo La fine di un mondo di cui parleremo in una prossima occasione.

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