
Quasi non ci credo: sono sopravvissuto (e uso il termine con cognizione di causa) al Salone Internazionale del Libro di Torino, dove sono andato a presentare il mio ultimo romanzo Appunti di un colloquio interrotto. Non era la mia prima volta, ma, salvo colpi di scena, con ogni probabilità è stata l’ultima. Anche le esperienze formative hanno un punto di saturazione. E io l’ho raggiunto.
Lo ammetto: ci metto del mio. Gli acciacchi dell’età e l’istinto a rifugiarsi nel sicuro dei classici contribuiscono a un certo disincanto. È il sintomo inequivocabile che si sta invecchiando: l’entusiasmo lascia il posto allo scetticismo, e ogni novità sa vagamente di déjà vu con copertina più colorata.
Ma non fraintendetemi: il Salone resta l’evento per eccellenza dell’editoria italiana. Un gigantesco baraccone culturale dove i grandi editori fanno la parte del leone, occupando stand grandi come hangar, piazzati nei punti più visibili, pronti ad accogliere folle adoranti che sembrano più interessate al gadget che al libro.
Anche i piccoli e medi editori cercano di dire la loro, seppur relegati ai margini dell’Impero. Nei corridoi meno battuti, tra un’uscita di sicurezza e una cassa d’acqua, cercano un angolino d’aria e di attenzione. E lì, dove l’ossigeno è scarso e i visitatori arrivano solo se si perdono, si combatte una silenziosa lotta per la sopravvivenza editoriale.
Per gli autori, almeno sulla carta, dovrebbe essere un’occasione d’oro: incontrare lettori, guadagnare visibilità, magari vendere qualcosa. Nella realtà, si firmano alcune copie, si posa per la foto con un fan di passaggio, si leggono brani ad alta voce davanti a cinque persone, di cui almeno tre sono lì solo per riposare. È un bel colpo per l’ego, ma per la diffusione dell’opera è un bagno d’umiltà. Anche quando qualcuno si ferma ad ascoltare, magari per sbaglio, scambiandoti per qualcun altro, non è il caso di montarsi la testa. È solo questione di secondi. Poi via: un’altra voce, un altro nome, un altro evento. La concorrenza è mostruosa. Ogni messaggio, ogni libro, ogni idea viene subito soffocata da un nuovo stimolo. E anche l’autore più motivato finisce per sentirsi come uno dei tanti volantini sparsi a terra: colorato, ma calpestato senza pietà.
Eppure, a vedere la folla ai cancelli, verrebbe da pensare che l’Italia sia un paese assetato di cultura. I visitatori arrivano da ogni angolo dello stivale, affrontano viaggi epici, pagano alberghi a prezzo raddoppiato, pur di non perdersi l’evento. Ma poi ci si ricorda che i dati sulla lettura sono in caduta libera, le librerie chiudono e i libri restano invenduti: e si considera che a spingerli, più che fame di cultura, è una forma di turismo esperienziale, una specie di pellegrinaggio laico, dove “esserci” conta più di leggere.
Il risultato è una giungla sonora e visiva: si ascolta un autore per trenta secondi, poi si scappa via, catturati da un nome più noto, da una copertina più sgargiante, da una fila più lunga, segno inequivocabile che “lì c’è qualcosa”. Si gira come trottole impazzite: testa a destra, testa a sinistra, occhi ovunque. Il tutto accompagnato da spintoni, gomitate, code interminabili e profumi umani da vagone affollato di agosto. Un’ansia da prestazione culturale degna di una finale dei Mondiali. In teoria, dovrebbe essere una celebrazione della lettura. In pratica, è il Black Friday dell’editoria.
E allora la domanda sorge spontanea: perché si va al Salone? Ma perché è diventato un Luna Park letterario, una Disneyland editoriale, una grande kermesse, più da vivere e raccontare che da approfondire. L’atmosfera è quella di un varietà televisivo, con ospiti noti più per la loro esposizione mediatica che per le qualità letterarie. Sono loro il vero magnete. Per raggiungerli ci si muove con la piantina in mano, in cerca della sala giusta, percorrendo chilometri nella direzione sbagliata, per poi tornare indietro trafelati, pestando piedi e chiedendo scusa senza mai fermarsi. E guai ad arrivare tardi: si rischia di non entrare, o di perdere l’incipit dell’ospite famoso. Quello stesso che magari ha scritto un libro (o gliel’hanno scritto), ma che è lì per essere visto, non certo letto.
Il pubblico li cerca, li insegue, tenta lo scatto rubato, l’autografo bramato, lo sguardo diretto, poiché un selfie sfocato con un volto noto vale più di qualsiasi scoperta letteraria. E intanto, tra la folla, i libri? Boh, saranno anche lì da qualche parte. Ma meglio non disturbare.
E così si gira, si suda, si cerca disperatamente un bagno, un bar, un’ombra sotto la cui protezione accucciarsi. E mentre i previdenti sfoderano i panini dallo zaino, gli incauti cedono all’offerta gastronomica da trincea, ingoiando un hot dog indigesto e degno delle peggiori mense aziendali per la modica cifra di otto euro… Ma si resiste. Si combatte. Si sopravvive.
Poi, quando finalmente si riguadagna l’uscita, si ha la sensazione di essere sopravvissuti a una campale battaglia editoriale. I muscoli dolgono, la metro è un forno umano e le gambe invocano pietà. Ma ce l’abbiamo fatta: siamo di nuovo all’aria aperta. Torino ci offrirà una cena saporita e un letto meritato. E noi potremo dire, con l’aria stanca dei veterani: “Io c’ero”.
Proprio come a un concerto epico o a un reality show in diretta. E che poi il Salone non alzi il livello culturale del Paese è secondario rispetto alla sicura alzata di sopracciglia…
Sapevo già tutto prima di andarci, ed è anche per questo che non ho mai amato particolarmente il Salone. Lo trovo un’esperienza faticosa, dispersiva, più simile a una fiera promozionale che a un vero incontro con la scrittura e la lettura. E francamente, credo che alla prossima edizione farò un bel salto. In tutti i sensi.

