Notti bianche: il tempo sospeso dell’illusione

3–5 minuti

Dopo l’articolo dedicato ai racconti giovanili, questo quarto numero della rubrica dedicata a Dostoevskij si occupa invece di Notti bianche.

C’è un Dostoevskij prima dei grandi romanzi della maturità, prima del tormento di Raskol’nikov, dei deliri di Ivan Karamazov o del martirio di Myškin. È un Dostoevskij giovane, malinconico, romantico. E Le notti bianche, racconto lungo pubblicato nel 1848, ne è l’esempio più luminoso e struggente. Un’opera che, pur nella sua apparente semplicità, racchiude in sé i semi delle grandi riflessioni dostoevskiane: sull’identità, sul desiderio, sulla solitudine e sull’inganno del sogno.

La storia si svolge a San Pietroburgo, città letteraria per eccellenza, già protagonista di molte altre opere dello scrittore. È lo sfondo ideale per questo racconto rarefatto, sospeso tra veglia e sonno, realtà e fantasia. Dostoevskij stesso la definiva “la città più astratta e premeditata del globo terrestre”: un palcoscenico di ombre, canali e nebbia, che riflette le inquietudini interiori dei personaggi. In questo spazio metafisico, si muove un’umanità fragile, isolata, incompiuta.
Il titolo richiama il fenomeno naturale delle notti bianche, tipico del solstizio d’estate, in cui la notte non diventa mai buio profondo. È un tempo sospeso, irreale, in cui tutto sembra possibile. Le strade sono deserte, la città è svuotata, e l’amore può sbocciare nel silenzio. In questo scenario avviene l’incontro tra i due protagonisti.

Lui è un giovane senza nome, senza passato né futuro, che vive da otto anni chiuso in una stanza, fuggendo dal mondo. Parla con le strade, con i palazzi, ma non ha amici. È un uomo solo, alimentato da letture romantiche e da illusioni infantili, incapace di agire, inetto, ma dotato di una sorprendente autoironia e di un’anima tenera. Il suo mondo è un rifugio mentale, un sogno a occhi aperti. Lei invece, Nasten’ka, diminutivo affettuoso che riecheggerà ne L’idiota,  è una ragazza di diciassette anni, vivace e malinconica, che vive sotto la rigida sorveglianza della nonna cieca. Anche lei sogna un amore diverso, una vita nuova. Ma è più concreta del sognatore, seppure ambivalente: dolce e manipolatrice, coraggiosa e insicura, sa che il sognatore si innamorerà, eppure non lo ferma. Lo guida, lo consola, forse lo usa. Le loro quattro notti, più una quinta non narrata, quella della consegna della lettera, sono un crescendo emotivo. Si conoscono, si confidano, si aprono l’uno all’altra. E quando il sognatore crede di aver trovato finalmente la felicità, la realtà irrompe brutale: l’amato di Nasten’ka, l’“inquilino” partito un anno prima per cercare fortuna, torna e la porta via con sé.

L’epilogo è amaro, ma non privo di dignità. Il sognatore non si ribella, non crolla. Rinuncia con eleganza, e anzi benedice la felicità di lei. “Un attimo di felicità… è forse poco per colmare tutta la vita di un uomo?”, scrive. Una delle frasi più celebri di Dostoevskij, che racchiude la malinconia luminosa del racconto. L’inquilino, presenza-assenza del racconto, è l’uomo concreto, specchio opposto del sognatore: stessa età, stesso ceto, ma capace di agire, di partire, di tornare. Non ha nome nemmeno lui, ma ha un’identità più definita: è reale, non idealizzato, e laddove il sognatore resta chiuso nel proprio sogno, l’inquilino costruisce una realtà.

Attorno ai protagonisti si muove un piccolo coro di figure secondarie, tutte funzionali e dense di significato. La nonna cieca, borghese decaduta, è simbolo di un’autorità familiare priva di forza, cieca nel corpo e nello spirito. La domestica trascurata del sognatore, che appare solo alla fine, diventa quasi una figura ironica del destino: appena svanito il sogno d’amore, si mette a spolverare, e gli dice che adesso può anche sposarsi. Infine, il signore ubriaco in frac, che infastidisce Nasten’ka la prima notte, è forse il più inconsapevole dei personaggi ma anche il motore dell’incontro. Senza di lui, forse nulla sarebbe iniziato.

In poche pagine, con una trama esile e pochi personaggi, Dostoevskij costruisce un racconto di straordinaria profondità. Non c’è azione, non c’è dramma nel senso tradizionale: eppure la tensione emotiva è altissima. Le notti bianche anticipa molte delle ossessioni del Dostoevskij maturo (la solitudine, il sogno, l’impossibilità di amare davvero) ma lo fa con una leggerezza poetica e malinconica unica nel suo genere. È un racconto che resta nel cuore, come un sogno che si ricorda appena svegli, e che ci interroga, con dolcezza ma senza pietà, sul peso delle illusioni e sulla bellezza, tragica e luminosa, dell’istante vissuto pienamente.

Analizzeremo la struttura narrativa de Le notti bianche, la tecnica compositiva e le risonanze profonde con la produzione matura di Dostoevskij, dal doppio alla psiche frammentata, dalla fede alla follia.

Un commento

Lascia un commento