Realismo e sogno ne “Le notti bianche”

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Dopo un primo articolo dedicato a Le notti bianche, esce l’ultimo mio intervento dedicato all’opera giovanile di Dostoevskij

Le notti bianche è un romanzo breve solo in apparenza semplice. Sotto la veste di un racconto sentimentale si cela una struttura complessa, articolata tanto sul piano narrativo e linguistico quanto su quello psicologico e simbolico. Si tratta di una narrazione sospesa tra sogno e memoria, dove la realtà si confonde con l’illusione e il sentimento si traveste di romanticismo per rivelare, in fondo, una cruda verità esistenziale.

Se la vicenda si riassume facilmente nella storia di un anonimo “sognatore”, solitario e malinconico, che incontra per quattro notti la giovane Nasten’ka, e vive con lei un’intensa quanto effimera parentesi di felicità, ciò che conta non è la trama, bensì la profondità con cui l’autore ricostruisce il mondo interiore dei personaggi. A cominciare proprio dal protagonista, che incarna nella poetica dostoevskiana la figura chiave dell’uomo umile, isolato, incapace di vivere, eppure ricco di umanità e bramoso d’amore. Il fatto che sia anonimo lo rende meglio prototipo di quella schiera di individui che vivono ai margini della società, in un mondo fantastico nutrito di letteratura e di attesa. Sognatori affamati di vita, ma incapaci di agire: cupi, taciturni, dediti alla contemplazione, sospesi in una condizione di “genere neutro”. Figure emarginate che si dibattono tra stenti materiali e grandezza morale, in bilico tra fallimento e dignità, tra sfiducia e desiderio di riscatto: e perciò incapaci di compiere il salto verso la vita autentica, e che dissipano in velleità la ricchezza interiore.

Sebbene sembri inizialmente più reale, anche Nasten’ka si rivela presto altrettanto “ambigua”, e più che figura concreta si risolve in una proiezione salvifica, nel momento che offre al sognatore l’illusione di uno stato di grazia che spezzi la monotonia della sua vita. Ma proprio in quanto figura simbolica, non può che dissolversi quando la realtà prende il sopravvento. L’uomo si ritrova allora di nuovo solo, nello squallore che ne domina l’esistenza, a coltivare il ricordo di quell’istante di beatitudine ancora quindici anni dopo, immergendosi nel passato con tale allucinata intensità da annullare la distanza temporale.

Per quanto si tratti di un romanzo breve, ne Le notti bianche Dostoevskij adotta uno stile narrativo ibrido, che alterna monologo interiore, dialoghi serrati, narrazione febbrile e pagine di riflessione. Ma malgrado l’adozione del parlato, con l’uso ricorrente di interiezioni e vocativi (come il frequente ascoltate), coinvolge il lettore per l’autenticità emotiva. Il tono generale è in effetti elegiaco, segnato da un’intensa malinconia, che abolisce il confine tra narratore e personaggio, per fare dell’interiorità del sognatore lo spazio stesso del racconto. E l’illusione che il protagonista stia vivendo la storia in tempo reale svanisce nel finale, dopo che l’ultima scena dell’alba batte il tocco della disillusione, e la narrazione torna al presente del ricordo rievocato nella sua misera stamberga.

Nonostante l’apparente levità dell’intreccio, dunque, Le notti bianche contiene in nuce alcune delle grandi tematiche dostoevskiane. A partire dal senso di alienazione che il protagonista sperimenta ai margini della società, incapace di relazioni autentiche, timoroso del giudizio altrui ma ancora più della propria inadeguatezza, e con quell’ansia di non farcela contro cui la sua ricchezza interiore si rivela inutile. Come accade ad altri personaggi dostoevskiani, anche qui la possibilità di riscatto si annuncia attraverso l’amore, il sogno, la solidarietà. Ma si tratta di tentativi destinati a fallire. E quando l’amore sfuma nell’ideale, la speranza si spegne contro la realtà, e la solidarietà si chiude su se stessa, resta solo la scissione interiore di un uomo contraddittorio, che confonde l’apparenza col vero fino alla paranoia. Un uomo a cui la felicità non è concessa, e le cui emozioni vissute in modo compulsivo, ripetitivo, sono destinate a saturare soltanto la memoria. Pochi giorni, quattro notti, un istante: sono questi i tempi di un’esultanza minacciata dalla solitudine o dalla disillusione, e su cui non brilla quella luce di solidarietà così ricorrente nei racconti giovanili.

Pur utilizzando topoi romantici, come l’ideale, la notte, il sogno, Dostoevskij li sovverte insomma completamente. Il suo è un realismo profondamente disincantato, che non mira alla lenitiva rappacificazione col mondo esterno, ma a un arduo scavo interiore. Più che un eroe romantico, il suo sognatore è un “uomo ridicolo” (e quanti ce ne sono nelle sue opere!) che solo nel momento in cui si deride riacquista una forma di dignità. Come accade nel finale del racconto, in quel mattino offuscato in cui rientra nella dimensione del tempo, e può sfidare la “senilità” incombente col suo indimenticato “attimo di felicità”.

Le notti bianche è un’opera breve, ma che racchiude in poche pagine tutta una paletta di trepidazioni: la tensione tra sogno e realtà, l’alienazione dell’uomo in una società distratta e cinica, la sete inestinguibile dell’amore alimentata dalla consapevolezza della propria insufficienza. Un racconto lirico e dolente, che immerge il lettore in un’atmosfera di dolorosa bellezza, col monito crudele e salvifico che un istante di ebbrezza, per chi vive nelle tenebre, può illuminare l’esistenza.

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