
Certe volte di prima mattina, dopo il moderato scompiglio dell’alba, quando già tutta Londra si avviava rumorosamente al lavoro, e il tumulto creativo si placava alla fine per la stanchezza, Clive si alzava dal pianoforte, si trascinava fino alla porta dello studio per spegnere le luci, dava ancora uno sguardo al caos prezioso che circondava gli strumenti della sua arte, e di nuovo un pensiero fugace tornava ad attraversarlo; era il frammento di un sospetto che non avrebbe comunicato a nessuno al mondo, che non avrebbe affidato neppure al suo diario; ne era parola chiave un concetto al quale la sua mente stessa opponeva resistenza; il pensiero, molto semplicemente, era che non sarebbe stato del tutto improprio affermare che lui era un… genio. Un genio. Quel termine suonava al suo orecchio interiore non senza un senso di colpa. Non gli avrebbe permesso di raggiungere le labbra. Non era un presuntuoso.
Un genio. La parola aveva subito i danni di troppi abusi, ma esistevano di certo dei risultati oggettivi, un livello aureo di prestazione non più discutibile, inopinabile. Non ce n’erano stati molti di geni. Shakespeare ovviamente lo era, e Darwin, e Newton, almeno a quanto si diceva. Purcell, quasi. Britten, un tantino meno, ma poteva concorrere.
Nessun Beethoven comunque, da quelle parti.
Ian McEwan, Amsterdam

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