Nasceva oggi Giosuè Carducci

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Giosuè Carducci, che più tardi adotterà la grafia Giosue, senza accento, nacque a Bologna il 27 luglio 1835. Trasferitosi con la famiglia in Maremma e poi a Firenze, presso la scuola degli Scolopi venne a conoscenza dei classici italiani, e mostrò fin da subito una forte inclinazione per la poesia. Ma di temperamento vivace e anticonformista, fu spinto dal clima culturale e dalla mentalità bigotta del Granducato a un polemico anticlericalismo; e l’insofferenza verso la religione istituzionalizzata e il Romanticismo lo portò presto ad abbracciare quell’orientamento classico-umanistico che rimarrà costante nella sua attività. 

Ammesso alla Scuola Normale Superiore di Pisa, nel 1856 si laureò in filosofia e filologia, e iniziò a insegnare a San Miniato al Tedesco, dove, per sua ammissione, “buttavo fuori dalla finestra gli Inni sacri di Manzoni e facevo studiare Virgilio, Orazio, Tacito e Dante”. Furono anni questi di importanti vicende familiari, come il suicidio del fratello Dante e la morte del padre; ma anche del matrimonio con Elvira Menicucci, da cui ebbe quattro figli. Aveva intanto avviato una fruttuosa collaborazione con l’editore Barbera, fondato un periodico letterario e pubblicato i primi scritti critici, che gli valsero l’attenzione del mondo culturale. Tanto che a soli 25 anni fu chiamato dal ministro della Pubblica Istruzione Terenzio Mamiani (sì, proprio quel parente che Leopardi aveva perculato per le magnifiche sorti e progressive!) alla cattedra di Eloquenza presso l’Università di Bologna, dove insegnò per oltre quarant’anni, formando intere generazioni di studenti, compreso Giovanni Pascoli.

Già nelle poesie di Juvenilia Carducci aveva mostrato tratti distintivi e tematiche della sua poetica, come la ricerca formale, la purezza dei sentimenti, il senso della patria, il culto per la tradizione classica e preromantica, nonché una decisa condanna del sentimentalismo romantico (il manzonismo degli stenterelli…). Il proposito di ridefinire forma e linguaggio con un’energia nuova, severa e luminosa, si confermò anche in Levia Gravia, raccolta che già nel titolo contrapponeva leggerezza e serietà, allineando poesie d’occasione a riflessioni intime sul disincanto esistenziale, sugli amori giovanili, sul conflitto tra passione e ragione. Avvicinatosi  intanto al pensiero democratico-repubblicano di Mazzini e alle teorie socialisteggianti di Proudhon, Carducci entrò in polemica con i moderati e clericali, e fu in questo clima di ribellione intellettuale che nacque il famoso Inno a Satana, provocatorio e solenne omaggio al progresso scientifico e alla libertà contro il dogma, in cui Satana, come figura prometeica già esaltata nelle litanie baudelairiane che scopriva  in quegli anni, diviene simbolo di rivolta, modernità e conoscenza.

È con Giambi ed Epodi (1867–1879) che il poeta liberò la sua più autentica vena polemica, lanciando con aggressività oraziana e impeto alcaico invettive contro i costumi del tempo, la politica corrotta e l’oscurantismo religioso. Ma l’incontro con Carolina Cristofori Piva, donna colta e sensibile, lo orientò sempre più verso una lirica più meditativa, venata di malinconia e profondità, e nutrita dei grandi autori europei che in quegli anni Carducci iniziò a tradurre (Goethe, Hugo, Heine). L’equilibrio affettivo e la maturità espressiva lo condussero a sviluppare i temi della memoria storica, del sogno democratico, della natura e dell’infanzia ribelle, con una straordinaria varietà metrica ed emotiva  nelle Rime nuove, che contengono alcune delle sue più celebri composizioni, come Il sonetto, Il bove, Virgilio, San Martinoe soprattutto Funere mersit acerbo, Traversando la Maremma toscanaPianto antico, Idillio maremmano, Davanti San Guido, La leggenda di Teodorico, La tomba del Busento, Congedo: rievocazioni dolenti e solenni, dove il paesaggio si fonde con la perdita, e la lirica si fa preghiera laica.

Il 1882 fu l’anno delle Odi barbare, cinquantasette liriche tra le più originali della sua produzione. In esse Carducci tentò la rivoluzione silenziosa di riprodurre nella versificazione italiana, accentuativa e non quantitativa, i metri della lirica greco-latina, definendole “barbare”, perché così sarebbero suonate all’orecchio sia degli antichi che dei contemporanei, anche se dietro quell’apparente anacronismo si celava una raffinata operazione formale. In testi come Miramar, Alla stazione in una mattina d’autunno, Su monte Mario, vibra una malinconia di intima contemplazione rispetto ai temi consueti della sua poesia: l’infanzia, la morte, la natura, il ricordo, il tempo. Nel 1889 apparvero infine Rime e Ritmi, l’ultima raccolta in cui la sperimentazione si fonde alla cantabilità e le forme barbare convivono con quelle classiche (Jaufré Rudel),come se il poeta cercasse una pacificazione tra rivolta e tradizione, alternando grandi liriche civili a componimenti malinconici  in cui filtra la consapevolezza del tempo che scorre e l’ombra della fine.

Nel 1889 uscì l’edizione completa delle sue opere, e l’anno successivo Carducci fu nominato senatore del Regno. Incontrò Giuseppe Verdi e Gabriele D’Annunzio; promosse la pubblicazione dello Zibaldone di Leopardi, e raccolse tutta la sua produzione poetica in un unico volume. Ma il declino fisico si annunciava implacabile, tanto che nel 1904, colpito da paralisi, dovette abbandonare l’insegnamento. La regina Margherita ne acquistò la biblioteca e più tardi anche la casa, a conferma del ruolo centrale che il poeta occupava nella cultura italiana del tempo, consacrato nel 1906, come primo italiano, col riconoscimento internazionale del Premio Nobel.

Morì a Bologna il 16 febbraio 1907, e fu sepolto nella Certosa della città. Secondo una leggenda, negli ultimi istanti avrebbe ricevuto i sacramenti dalle mani di un prete travestito da barbiere, che così era riuscito a eludere la sorveglianza dei massoni presenti. Ma forse a smentirla, in epigrafe volle scritto: Né preci di cardinali, né comizi di popolo: io sono qual fui nel 1867 e tale aspetto, immutato e imperturbato, la grande ora.”

Carducci ha lasciato un’impronta forte nella letteratura italiana ed europea. La sua poesia, capace di unire coscienza storica, introspezione lirica, eredità classica e tensione civile, rappresenta una delle massime espressioni dell’Ottocento. Cantò l’Italia unita, ma ne denunciò anche le contraddizioni; combatté la Chiesa cattolica coltivando un ideale di libertà che affondava le radici nell’antichità pagana e nei comuni medievali. Il paesaggio, la memoria, la morte, la famiglia, la storia, tutto in lui si trasfigurò in una forma sorvegliata, musicale e potente. Eppure, questo poeta monumentale oggi è trattato alla stregua di un’imbarazzante icona polverosa. Al gusto contemporaneo che si nutre di immediatezza e svuotamento semantico, questo mostruoso artefice risulta indigesto. La sua ossessione metrica respinge i poeti dell’accapo, e la vocazione al pensiero strutturato lo rende sospetto, in un’epoca che solleva l’espressione informe e l’incompetenza a sinonimo di originalità, e per cui la perizia è un pecca.

Certo, Carducci non è immune da difetti: troppi riferimenti classici risultano incomprensibili senza un commento. Figure retoriche desuete, come l’iperbato di cui abusa, non ne facilitano l’approccio. È irritante l’ex ribelle quando prende a tromboneggiare, del resto non più di Pascoli e D’annunzio. Ma la questione è un’altra, e dipende dalla caduta libera di competenza e formazione in coloro che non gli perdonano il rigore, l’erudizione e la complessità stilistica. Poiché oggi infastidisce fermarsi a sciogliere versi, e il pensiero latita in poesia. Così, se Pascoli sopravvive per certa sua malinconia trasversale e una lingua più familiare; e se D’Annunzio, dopo anni di anatema torna in auge per il suo estetismo da poster vintage, Carducci ristagna. Il Nobel (del resto anch’esso sempre più squalificato) non ne conferma la statura. Nelle antologie scolastiche il suo spazio si restringe sempre più, per far posto ai poetastri promossi dai riciclaggi critici, purché abbiano ricevuto un trauma travasato in versi che sembrino aforismi malriusciti.

Del resto Carducci non funziona nel format, non è citabile su TikTok, non si adatta ai reel motivazionali, e non è abbastanza oscuro da sembrare profondo. È solo uno che sapeva scrivere, in una lingua che oggi metterebbe in crisi persino chi insegna lettere. E allora lasciamolo ancora lì, nella sua gloria scomoda, tra i volumi dimenticati e le rime “barbare”. E forse finché ci sarà ancora qualcuno in grado di distinguere un poeta da un influencer con velleità liriche, e finché il canone non lo decideranno solo gli algoritmi, vale ancora la pena leggerlo. 

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