Per una morale dell’ambiguità

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«La continua opera della nostra vita è edificare la morte» dice Montaigne. Cita i poeti latini: «Prima, quae vitam dedit, hora carpsit». E ancora: «Nascentes morimur». Questa tragica ambivalenza, che l’animale e la pianta solamente subiscono, l’uomo la conosce, la pensa. In tal modo si introduce nel suo destino un nuovo paradosso. «Animale ragionevole», «canna pensante», egli evade dalla sua condizione naturale senza peraltro liberarsene; di quel mondo di cui è coscienza, l’uomo è anche parte; si afferma come pura interiorità, contro la quale nessuna potenza esteriore potrebbe aver presa, ma si sente anche come una cosa schiacciata dal peso oscuro delle altre cose. In ogni istante può cogliere la verità atemporale della propria esistenza; ma fra il passato che non è più e l’avvenire che non è ancora, questo istante in cui egli esiste non è nulla. Quel privilegio che è il solo a detenere: essere un soggetto sovrano e unico in un universo di oggetti, ecco che l’uomo lo condivide con tutti i suoi simili; a sua volta oggetto per gli altri, nella collettività da cui dipende non è nulla più che un individuo.

Simone De Beauvoir, Per una morale dell’ambiguità

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