
Ricordo una sera a New York. Una cena importante. C’erano tutti i maggiori giallisti, perfino Frederic Dannay, il sopravvissuto della coppia che si firma Ellery Queen, un vecchio secco e ossuto, sorretto solo dalla sua fama e da un bastone nero. C’erano il grande Isaac Asimov, e l’enorme Christianna Brand. Eravamo tutti seduti a mangiare – centinaia di persone, come si conviene a una cena all’americana – in attesa che la nomination all’Edgar Allan Poe Award si tramutasse, per pochi eletti di noi, in premio tangibile. Al mio tavolo sedeva uno sceneggiatore cinematografico. Giovane, simpatico e disponibile alla chiacchiera. Non cominciammo subito a parlare di delitti, s’intende.
Bisognava rompere il ghiaccio, fare un po’ d’amicizia. Parlammo del tempo, del mio viaggio a New York (lui lì ci viveva), di vini italiani. Poi ci proponemmo un gioco: individuare qualcuno in sala per appiccicargli addosso un delitto. Inventammo una storia stupida, poi una storia divertente ma non troppo sensata, infine una storia grottesca. Decidemmo perfino che il giorno dopo saremmo andati a comperarci un computer, per scrivere a quattro mani il primo giallo con l’aiuto di un calcolatore.
A quel punto ormai la serata ufficiale era al termine, ma difficilmente mi sarei liberato del mio nuovo amico prima delle tre del mattino.
Uscimmo dall’albergo, dove si era svolto il banchetto, per fare due passi. All’improvviso eravamo diventati più seri. Cominciammo a parlare di autori, a scambiarci confidenze
Agatha Christie, Hercule Poirot indaga

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