
Ma la nostra carrozza si allontanava, la bella ragazza era già dietro noi e, dato che non possedeva di me nessuna di quelle nozioni che nel suo insieme danno l’idea di una persona, i suoi occhi, che mi avevano appena visto, mi avevano già dimenticato. L’avevo trovata così bella perché l’avevo soltanto intravista? Forse. Prima di tutto, l’impossibilità di fermarmi accanto a una donna, il rischio di non ritrovarla un’altra volta, le donano immediatamente lo stesso fascino che danno a un paese la malattia o la povertà che ci impediscono di visitarlo, o ai giorni tanto monotoni che ci restano da vivere, la lotta in cui forse soccomberemo. Di modo che, se non esistesse l’abitudine, la vita dovrebbe sembrare deliziosa ad esseri su cui incombe continuamente la minaccia di morire — cioè a tutti gli uomini. Inoltre, se l’immaginazione è stimolata dal desiderio di ciò che non possiamo possedere, il suo slancio non è limitato da una realtà completamente percepita in quegli incontri in cui il fascino di colei che passa è generalmente in rapporto diretto con la rapidità del passaggio. Per quanto scenda la notte e la carrozza vada veloce, in campagna, in una città, non c’è dorso femminile, mutilato come un marmo antico, dalla velocità che ci trascina via, dal crepuscolo che lo avvolge, che non scagli nel nostro cuore, ad ogni angolo di strada, dal fondo di ogni bottega, le frecce della Bellezza, della Bellezza di cui si sarebbe a volte tentati di chiedersi se non sia, in questo mondo, nient’altro che il complemento che la nostra immaginazione sovreccitata dal rimpianto aggiunge a una passante frammentaria e fugace.
Marcel Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore

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