
Una recensione non dovrebbe occuparsi, oltre del libro, anche del film che ne è stato tratto. Ma quando il regista è Giuseppe Tornatore e il film è La leggenda del pianista sull’oceano (1998) un’eccezione, magari parziale, va fatta. Nessuno ignora la differenza tra i due linguaggi e forse è inutile parlarne, ma sono proprio le differenze espressive che qui m’interessano, perché conservano e valorizzano l’unità del messaggio, quello di Baricco (il libro è naturalmente Novecento).
Secondo l’ammissione dello stesso autore, Novecento è in bilico tra una vera messa in scena e un racconto da leggere ad alta voce. La vicenda è nota. Basti dire che Novecento nasce, cresce, vive e muore a bordo di una nave sull’oceano, rifiutandosi sempre di scendere a terra, anche quando sembrava deciso a farlo. La sua scelta esistenziale non è scevra dall’influenza dell’arte musicale, la sua bravura di pianista può manifestarsi solo sulla nave, e in ogni caso la musica è per lui una ragione di vita, da non confondere con la competizione; si ricordi che la vittoria nel duello con Jelly Roll Morton non è dovuta solo ad un imperativo agonistico, come si vede nella spettacolare scena del duello nel film, attualmente su You Tube: https://www.youtube.com/watch?v=F4VrSBe3Er0. Nemmeno va confusa la musica con il successo, che poco conta; nel film giustamente il regista ha immesso (oserei dire insinuato) i temi dell’amore e del rifiuto della massificazione dell’espressione artistica. Alla fine del libro, il monologo passa «nelle mani» di Novecento stesso, che spiega il suo rifiuto di scendere a terra; quello che aveva visto dalla scaletta era qualcosa che non ha fine: molto meglio la tastiera del piano, perché il numero dei tasti è limitato, mentre la possibilità di esprimere musica è infinita. Il mondo è il pianoforte su cui suona Dio ed è dunque il posto sbagliato in cui suonare. Ma che vuol dire «suonare» per Novecento? Qual è per lui lo scopo della musica? La risposta del protagonista è esplicita: la musica gli è servita per incantare, addomesticare i desideri e lasciarli dietro di sé: ho disarmato l’infelicità; ho sfilato via la mia vita dai miei desideri.
Nel film la brillante recitazione di Tim Roth, le risorse sceniche e l’abile regia di Tornatore non solo esprimono efficacemente i significati del libro, peraltro inseriti in una cornice narrativa dal taglio epico, ma li colorano di quei particolari che nel testo letterario non possono non rimnere impliciti (almeno in un dramma): ne vengono evidenziati temi quali l’amore, la povertà, l’eguaglianza tra gli uomini, l’orrore della guerra e altro ancora, sicché il discorso etico – non certo assente in Baricco, anzi – viene svolto senza remore od omissioni ed anche senza didatticismi dannosi. Lo spettatore partecipa, si diverte e condivide: intrattenimento e sensibilizzazione si coniugano a perfezione. Film e monologo teatrale sono diversi nella loro realizzazione (da una parte una proiezione di quasi tre ore, dall’altra un testo di sessanta pagine), ma l’emozione che li pervade e il senso della vicenda sono molto simili, o quanto meno si corrispondono fortemente. Il messaggio è «targato» Baricco-Tornatore, come conferma la confessione finale del protagonista del film: https://www.youtube.com/watch?v=zf-5XQmQW9c .
In Novecento lo scrittore non si è posto il problema dell’accoglienza del pubblico e della necessità di rispondere ai suoi gusti, ma ha raccontato semplicemente una storia, anzi l’ha fatta raccontare agli altri, al trombettista prima e al protagonista poi. Il linguaggio tagliente e incisivo è fatto di sentimenti e di cose, di idee e di emozioni, e suona come vero.
Tornato, però, alla narrazione pura e semplice con Seta, Baricco ha poi confermato le ambiguità e gli errori di Oceano mare. Anche le opere successive hanno convinto poco. L’enfasi guasta l’ispirazione lirica e l’artificio è trasparente dall’inizio alla fine; ma, soprattutto, ancora una volta Baricco si sforza di piacere al suo pubblico e piega le sue scelte ai desideri di un lettore-tiranno precostituito. Il dilemma non è fuori luogo: fino a che punto un autore «deve» (se deve) avere presente il suo lettore-tipo e magari il vasto pubblico consumatore? E in che misura il mercato, di riflesso, incide sulle sue scelte? Baricco è l’esempio tipico di uno scrittore abile, che sa affabulare ed è in grado di imporre un suo stile al racconto, che trova più congeniale ai suoi mezzi espressivi la narrazione delegata e il testo drammatico (e i saggi brevi, si vedano le due raccolte di Barnum), ma che per piacere e forse anche per vendere (il libro è una merce, non dimentichiamolo) ha costretto se stesso a scrivere un certo tipo di romanzi e a costruirli in modo artefatto, lontano da ogni spontaneità. In questi casi anche le scelte di lingua perdono freschezza e vigore. Novecento viene ad essere l’eccezione, il testo che ci consente di guardare a Baricco non solo come a un’occasione mancata, ma anche come a una vicenda letteraria incompiuta, un po’ come la scelta esistenziale, solitaria e amara del pianista sull’oceano.
