CONSOLO, IL SORRISO DELL’IGNOTO MARINAIO di Vittorio Panicara

Nella Nota dell’autore, vent’anni dopo, Vincenzo Consolo, in occasione della prima edizione per la Mondadori (il libro era uscito per i tipi di Einaudi nel 1976), commentava Il sorriso dell’ignoto marinaio con distacco critico e, al tempo stesso, malcelata partecipazione. Lo spaesamento di un siciliano a Milano, l’agitata temperie culturale degli anni Sessanta e Settanta, il confronto con il Gattopardo: Consolo spiegava in maniera esauriente la genesi, il successo e i motivi del romanzo, con un’analisi così attenta da sembrare insolita in un autore.

La mia proposta di rileggere il Sorriso prende in considerazione due passaggi della Nota di Consolo: l’accusa che venne fatta al romanzo di avere una «fredda, impoetica costruzione»; la definizione di anti-romanzo storico e di.«Antigattopardo». Entrambe le affermazioni mi sembrano inesatte.

La narrazione è spezzata in tanti momenti separati, che si ricollegano tra di loro secondo un filo tenue ma solido. L’ambientazione siciliana non sorprende certo in Consolo, al pari della scelta temporale, gli anni risorgimentali, con particolare attenzione al 1860. Il barone di Mandralisca porta nella sua Cefalù un ritratto di ignoto dipinto da Antonello da Messina; gli è stato venduto da uno speziale di Lipari, che ha voluto così sottrarlo alle ire della figlia Catena, irritata per il sorriso ironico e insopportabile dell’uomo raffigurato. Dopo quindici anni Mandralisca riconosce nel patriota Giovanni Interdonato, suo ospite, le sembianze di un marinaio che aveva incontrato sulla nave per Cefalù e che era del tutto rassomigliante al ritratto di Antonello; Giovanni è innamorato della stessa Catena, anche lei impegnata per la causa italiana. Quattro anni dopo, assistiamo alle vicende delle rivolte contadine che accompagnarono l’impresa dei Mille; dal 13 al 17 maggio 1860 si prepara e scoppia la sanguinosa ribellione di Alcàra Li Fusi, della quale ha notizia, e in qualche misura vi assiste, lo stesso barone di Mandralisca, durante un viaggio a Sant’Agata di Militello. La tragedia convince il barone ad abbandonare l’inutile studio dei molluschi terrestri e fluviali, al quale ha dedicato tanti anni; si allontana dall’ottusa società nobiliare a cui appartiene e riconosce la giusta sete di giustizia dei villani. Spedisce una memoria a Interdonato e visita il terribile carcere di Sant’Agata, in cui sono rinchiusi i capi della rivolta; la prigione ha la forma di una chiocciola (la forma di spirale accentua il carattere dantesco della descrizione) e sui muri appaiono le scritte disperate dei braccianti arrestati. In un’ultima appendice, si racconta l’intervento di Interdonato, Procuratore Generale di Messina per il nuovo governo, a favore dei ribelli rinchiusi.

Questi cenni dovrebbero rendere almeno una vaga idea dei motivi sociali e storici, ma in fondo dicono poco sulle motivazioni artistiche dell’opera. Nella Nota Consolo spiega il valore simbolico dei luoghi: Messina, luogo dei terremoti, in cui la natura vince sulla civiltà, è l’antitesi di Palermo, centro del potere e della violenza politica e sociale; Cefalù, la città in cui arriva da Lipari (luogo del mito) il Ritratto, è il museo, il luogo della memoria e della scrittura. Queste scarne considerazioni ci portano vicini al significato del testo.  In realtà l’autore non ha solo voluto dare voce a chi la sua storia non ha mai potuto raccontarla, dai cavatori di pomice liparioti ai braccianti di Bronte e Alcàra; non ha voluto solo rileggere il Risorgimento da un versante opposto a quello di Tomasi di Lampedusa: si è posto con forza soprattutto il problema della scrittura, della sua funzione, del suo valore. Collocandosi tra avanguardia e tradizione, Consolo sceglie una soluzione mediana, un linguaggio nuovo nell’impostazione (una paratassi insistita, gli elenchi di nomi e frasi, la ricchezza del lessico a scapito della complessità sintattica) ma antico, addirittura arcaico, nelle parole, scelte senza remore nel ricchissimo repertorio dialettale siciliano, alla riscoperta di valori nascosti, sopraffatti oggi come allora da mode insulse e vuote. E la sua prosa è prosa poetica, ma non lirica: una poesia che può essere «poesia di odio» come quella di Catena, che sfregia il sorriso  ironico, di superiorità, del ritratto, simbolo evidente di una cultura razionalistica cinica e incapace di cogliere ed esprimere sentimenti veri. Forse Consolo ha voluto offrirci una «metafora del presente», dei tempi cioè in cui il romanzo è stato scritto (mi pare lecito dubitarne); quello che mi sembra certo è che non c’è fredda costruzione, ma poesia sentita e vibrante di fiera protesta morale e civile. E se la rassegnazione è totalmente assente, non c’è nemmeno vuoto ottimismo nel Sorriso: in Consolo la fiducia negli uomini non sembra superiore che in Lampedusa (ma per dimostrarlo ci vorrebbe un intero saggio, esteso anche ad altre opere). Quello che si può dire è che, quando il libro uscì, fu comodo per tanti considerarlo la risposta al Gattopardo, mentre ne era probabilmente il completamento, l’altra faccia della stessa amara medaglia.

 

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