Il «Populismo 2.0» secondo Marco Revelli (recensione di Vittorio Panicara).

Populismo 2.0: malattia senile della democrazia è il titolo del primo capitolo di «Populismo 2.0» di Marco Revelli, professore di Scienza della politica dell’Università del Piemonte orientale; il libro, edito da Einaudi, è del 2017. Revelli rispetto a Müller restringe il significato di «populismo». Quando un popolo (o una sua parte) non si sente rappresentato ed è escluso dal potere, tende a reagire in vari modi, e la reazione oggi più frequente è proprio il populismo. L’autore distingue il populismo di fine Ottocento–inizio Novecento (malattia infantile della democrazia) da quello recente di fine Novecento e inizio XXI secolo (il neo-populismo, malattia senile della democrazia), quando le dinamiche oligarchiche marginalizzano la popolazione e creano un deficit di rappresentanza. Il titolo del libro rimanda a questo secondo tipo.

I primi due capitoli indagano gli aspetti teorici del neo-populismo, mentre la seconda parte, più estesa, esamina i casi concreti degli Stati Uniti e di alcuni paesi d’Europa, tra cui l’Italia; a questi capitoli verrà dedicato solo un rapido sommario.

Dopo aver criticato l’abuso del termine – una parola “pigliatutto” – Revelli consiglia di adoperarlo al plurale, populismi, per indicare le molteplici esperienze storiche di reazione alle ultime crisi, e dichiara di voler prestare particolare attenzione ai populismi più recenti. E se il populismo è causato da una situazione di crisi democratica oltre che socio-economica, l’autore ricorda che è dal 2000 che si parla di post-democrazia, a indicare il carattere terminale della patologia democratica, con la crescente tendenza all’oligarchia a scapito della rappresentanza. Vecchi e nuovi privilegiati prendono sempre più potere, il conflitto politico si inasprisce e il politically correct  va in crisi. È tale  disaggregazione sociale che dà luogo alla trasgressione populista. Emerge allora una nuova plebe di imbarbariti sociali:

sono gli artefici della Brexit inglese (…)  loro i protagonisti dello sconcertante trionfo di Trump (…) loro gli spettri che si aggirano per l’Europa destabilizzando, da destra (di più) o da sinistra, la leadership oligarchica della sua Commissione e degli apparati comunitari; loro il propellente del grillismo, del lepenismo, dell’indipendentismo antieuro, della rivolta anti-immigrati.

Qualcosa va aggiunto: i grandi cambiamenti e l’instabilità della politica dipendono anche da un meccanismo di rottura innestato dalla dissoluzione di istituti come i partiti di massa, i canali tradizionali della partecipazione politica e le forme di aggregazione tardo-industriali.

Per Revelli il populismo non è un nuovo soggetto politico vero e proprio:

è un’entità molto più impalpabile e meno identificabile entro specifici confini e involucri. È uno stato d’animo. Un mood.

È la forma informe in cui le società “sfarinate” protestano contro quello che Luciano Gallino ha chiamato «finanzcapitalismo».

I populismi, dunque, rispecchiano una particolare psicologia politica, sono un fenomeno di emotività collettiva. In aggiunta, l’autore riporta i fattori comuni a tutti i populismi (già visti nel testo di Müller): il riferimento al “popolo” e alle élite che lo hanno tradito, il ricorso a leader carismatici, un linguaggio e uno stile rivoluzionari. Si tratta di caratteristiche accertate da molti autori e riportate anche nei dizionari Merriam-Webster , in quello di Cambridge (che però parla del populismo come di una vera e propria filosofia politica) e il Business Dictionary. Come nello studio di Müller, evidentemente l’asse alto-basso sostituisce la classica opposizione destra-sinistra, mentre la politica, nella sua incapacità di capire la vita delle persone, viene incolpata del male oscuro che opprime la società. Da qui sono nate parole nuove come «antipolitica» (già impiegata, tra l’altro, da Salvatorelli  nei confronti dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini) e «New Populism» in America.

Nel Dizionario di Politica (2016) di Bobbio, Matteucci e Pasquino, inoltre, il «Neopopulismo» è presentato in stretta connessione con il neoliberismo imperante: da esso trarrebbe concetti, precetti e retorica, trasferendoli dal piano macroeconomico a quello politico (per esempio proponendo il rafforzamento dell’esecutivo contro partiti e parlamento, o polemizzando con il movimento sindacale, gli ordini professionali e le tradizionali forme della rappresentanza sociale). Il populismo al governo confermerebbe questa diagnosi degli studiosi italiani.

Inoltre, sempre dal lato teorico, anche se il riferimento è nel cap.VII, dedicato all’Italia, Revelli riporta una classificazione di Diego Ceccobelli – in «Che cos’è il populismo”: https://www.valigiablu.it/che-cosa-e-il-populismo/ -, nella quale il populismo “massmediatico” viene contrapposto a quello delle definizioni scientifiche e si caratterizza per la sua “politica pop” (uno stile comunicativo popolare, molto diretto), la personalizzazione estrema (soprattutto con Berlusconi), la demagogia e la “novità” rispetto alla politica tradizionale (nuovi partiti e movimenti). Nel suo articolo Ceccobelli (in realtà contrario all’impiego disinvolto di «populismo») così conclude questa spiegazione, con evidente riferimento all’Italia:

Nel dibattito pubblico quotidiano populismo è pertanto divenuto sinonimo di ogni tipo di tratto e peculiarità associati a quegli attori politici non tradizionali e, a vario livello, anti-sistema.

(https://www.valigiablu.it/che-cosa-e-il-populismo/).

Come si può notare, la definizione di populismo sembra essere più sfuggente che mai. L’accertamento delle cause del fenomeno, dalla globalizzazione neoliberista alla crisi della democrazia, sembra fuori discussione, ma caratterizzare il populismo solo come una reazione emotiva a uno stato di crisi rientra in modo palese nei «vicoli ciechi» di cui parlava Müller. Rimangono i riferimenti utilissimi alla cosiddetta “anti-politica”, parola ricorrente nella polemica politica italiana, e al contenuto intrinsecamente protestatario di ogni neo-populismo.

Il libro di Revelli prosegue con un esame accurato del legame che intercorre tra il populismo originario del «National People’s Party» statunitense di fine Ottocento e inizio Novecento e quello di Donald Trump, con un’analisi ravvicinata del risultato elettorale del 2016. Non è possibile ripercorrere qui tutte le tappe del discorso dell’autore, ma vale la pena di sottolineare come l’elezione di Trump sia stata anche la vendetta dei “deprivati”, di coloro, cioè, rimasti depauperati ed esclusi dal potere, nei confronti delle oligarchie dominanti. E ciò vale anche per la Brexit, con Nigel Farage, e per i successi elettorali di Marine Le Pen in Francia e di AfD in Germania.

Il capitolo «I tre populismi in Italia» è poi dedicato al «telepopulismo» berlusconiano, al renzismo – il populismo dall’alto – e al «cyberpopulismo» grillino. La personalizzazione della politica in questi tre casi è evidente, così come la novità dello stile e un presunto rinnovamento dei valori e delle proposte politiche. Se Berlusconi, colui che ha introdotto il populismo 2.0 in Italia, è l’imbonitore televisivo e Renzi il Rottamatore demagogo (con il suo PD “renzizzato” e in qualche modo populista), Beppe Grillo, come è noto, guida “il popolo della rete”: il suo M5S, con l’improvviso successo elettorale del 2013 (ampliato enormemente nel 2018), merita un approfondimento a parte. Nel prossimo articolo.

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