Ha senso dichiararsi innamorati di una lingua straniera? E si può coronare questo “sogno d’amore” scrivendo addirittura un libro autobiografico di successo, in questa lingua e su di essa? La risposta ce l’ha data Jhumpa Lahiri quattro anni fa con “In altre parole”, di cui è uscita nel febbraio scorso la terza edizione (Guanda, 2018). Siccome include rispetto alla prima edizione anche un breve racconto, “Penombra”, e soprattutto una significativa “Postfazione”, non è inutile riparlarne in merito al rapporto lingua-testo letterario e al concetto di “lingua materna”.
La scrittrice statunitense di origini bengalesi, già premio Pulitzer e molto nota a livello internazionale, ha scritto il testo in una lingua, l’italiano, che ha imparato in pochi anni, prima in America e poi in Italia, e che è la sua seconda lingua straniera. In realtà, come afferma lei stessa,
è una scrittrice che non appartiene del tutto a nessuna lingua.
La sua dimestichezza con il bengalese, infatti, è limitata alla famiglia e all’oralità. Inoltre, l’inglese rimane una lingua di lavoro, nonostante l’ottima padronanza, riconosciuta da tutti:
fin da ragazza appartengo soltanto alle mie parole. Non ho un Paese, una cultura precisa.
La scrittrice ha ripreso in mano il suo taccuino degli appunti, scritto nei giorni trascorsi soprattutto a Roma, e ne ha tratto una sorta di diario sulla sua esperienza con l’italiano. In queste righe parla di una lingua per lei nuova e affascinante:
sembra una lingua con cui devo avere una relazione… un colpo di fulmine […]
ogni giorno ci sarà una nuova parola da imparare. Così il vero amore può rappresentare l’eternità.
Da queste annotazioni giornaliere ha ricavato una narrazione-riflessione ricca di spunti notevoli:
- in italiano si sente disorientata e deprivata linguisticamente, ma anche libera, leggera: in fondo vuole essere capita e vuole capire se stessa, nient’altro;
- in lingua italiana si sente un’intrusa, un’impostora, ma ha la libertà di essere imperfetta e questo stimola la sua creatività:
dal punto di vista creativo non c’è nulla di tanto pericoloso quanto la sicurezza;
- per lei la parola è vita e l’inquietudine che prova scrivendo in italiano è la stessa che prova pensando alla vita come a un ponte tra la nascita e la morte;
- si accorge a un certo punto di provare un atteggiamento materno nei confronti dell’italiano, e non più da amante.
Tornata per un mese in America, prova distacco nei confronti dell’inglese, ormai poco attraente, e nostalgia dell’italiano, e questa doppia crisi genera straniamento e disincanto:
Mi sento una scrittrice senza una lingua definitiva, senza origine, senza definizione. Se sia un vantaggio o uno svantaggio, non saprei.
Una sorta di esilio? No, l’autrice afferma di sentirsi esiliata perfino dalla definizione di esilio, straniera in Italia (a causa del suo aspetto fisico!) e in un certo qual modo estranea alla lingua inglese negli Stati Uniti. Nel triangolo bengalese-inglese-italiano, la cornice che contiene la sua persona, quest’ultima lingua, l’italiano, rappresenta la fuga dallo scontro tra le prime due. Nella cornice, però, non riesce a vedere se stessa nella sua integrità: è questo il rovello della sua vita e la fonte del suo impulso creativo, che, per sconfiggere la solitudine, la porta a cercare di essere qualcun altro e a scegliere l’italiano come termine della sua metamorfosi nella scrittura.
Nel primo dei due capitoli finali (non contenuti nella prima edizione), il racconto breve “Penombra”, Jhumpa Lahiri mostra tutte le sue doti di narratrice. Il protagonista, tornato in famiglia dopo una lunga assenza, interpreta un suo sogno angoscioso – un viaggio spericolato con la moglie in una macchina senza carrozzeria, in un viale alberato livido e spettrale – solo dopo aver sospettato della fedeltà di lei ingiustamente e in modo irrazionale. Paragona il sogno a un’esperienza precedente, il viaggio di nozze, e allora capisce da dove esso è scaturito: dallo stupore di aver trascorso una vita accanto alla stessa persona. Ed è stata una vita senza sosta, non priva di pericoli:
Ora vede quel primo viaggio, il loro principio, in penombra; preferisce la lucida verità del sogno. Solo che all’epoca, qualunque sogno fosse, l’avrebbe condiviso con lei.
Lui, infatti, non ha voluto informare la moglie del sogno, provandone vergogna, mentre una volta avrebbe avuto più fiducia in se stesso e in lei. In poche righe, la scrittrice ha illustrato gli aspetti contraddittori di una lunga vita di coppia e forse di qualunque storia d’amore.
Nella “Postfazione”, pubblicata anch’essa come quasi tutti gli altri capitoli nella rivista “Internazionale”, il lettore ha modo di vedere più da vicino le motivazioni profonde di “In altre parole”. Come Matisse cambiò il suo stile pittorico nella fase finale della sua vita, così la Lahiri ha cercato un nuovo inizio, una rifondazione che traesse qualcosa di coerente dallo scompiglio creato dall’impiego di una nuova lingua. È un esordio fondato su un’assenza e su un rifiuto, quello della lingua inglese, ma anche su di un filo logico, quello dell’esperienza vissuta con l’italiano e riportata nei suoi diari, il viaggio interiore senza meta di una viaggiatrice sradicata, un libro di memoria, pieno di metafore. L’autrice ritiene il suo testo un’autobiografia linguistica, un autoritratto. E per la prima volta è lei la protagonista di un suo romanzo, che racconta in modo veritiero le sue esperienze con l’italiano, ma che si muove verso l’astrazione: luoghi imprecisati, pochi fatti, ambienti poco determinati, pochi dati concreti. Il segreto che spiega questa apparente contraddizione risiede nella scelta dell’italiano come soggetto e al tempo stesso come strumento espressivo. Tale lingua, di cui non ha un’assoluta padronanza, è un mezzo inaffidabile ed è al contempo il distacco di cui la scrittrice ha bisogno per creare un testo letterario autentico, sincero e onesto. O almeno spera che così risulti agli occhi dei suoi lettori italiani.
Nella prima parte di questa recensione è stato messo in risalto il problema linguistico dell’autrice, che si considera priva di una lingua materna veramente padroneggiata, nel suo caso il bengalese. La lingua curata e approfondita a scuola, l’inglese, che le ha dato la celebrità e gli onori della cronaca letteraria, rimane una lingua straniera. Da questa carenza nascono la sua spinta verso l’italiano, anzi la sua passione per la lingua di Dante, e una nuova avventura letteraria, che le consente di rinascere come scrittrice a una nuova vita. Ma è davvero necessario, per un autore letterario, scrivere nella propria lingua? Una lingua “materna” e non matrigna? E siamo in grado di dare una definizione della cosiddetta lingua materna?
La Lahiri discute anche il concetto di verosimiglianza, che contesta sulla scorta della particolarità del suo testo autobiografico: importante nel suo caso è l’autenticità del narrato, valorizzata dall’identità di soggetto e mezzo espressivo (un italiano inadeguato), ciò che puntualmente ha luogo in “In altre parole”, un unicum di cui va giustamente fiera. In fondo, sembra replicare le proteste pirandelliane contro una verosimiglianza che non poteva mai avvicinare e raggiungere l’assurdo della vita che si cela dietro una maschera, vero oggetto della letteratura. E l’italiano, per la Lahiri, nella sua imperfezione, è una maschera perfetta.
Un libro consigliabile, dunque, soprattutto come libro di lettura per l’insegnamento dell’italiano lingua straniera, se si considerano l’originalità del tema, la profondità dell’auto-esame a cui l’autrice si sottopone, e la sua scrittura, semplice ma efficace.
P.S.
È di estremo interesse, per chi voglia approfondire l’argomento soprattutto dal lato del rapporto tra migrazione e “svolta transculturale”, lo studio di Dagmar Reichardt «Radicata a Roma: la svolta transculturale nella scrittura italofona nomade di Jhumpa Lahiri» (Latvian Academy of Culture, Riga; senza data), di cui è reperibile il PDF in internet.
Ne riporto l’Abstract:
Il romanzo autobiografico In altre parole (2015) della scrittrice anglo-italofona Jhumpa Lahiri segna una svolta nella letteratura della migrazione italofona: per la prima volta l’autrice statunitense pubblica un testo in italiano, che per lei è una «terza lingua», «una lingua […] di affetto e di riflessione». In questo suo «dialogo con l’ignoto», durante il suo esilio volontario, scopre non solo la lingua come «metafora principale» e come terzo spazio d’evasione, ma l’italiano si trasforma in lei da una «lingua del desiderio» in una «lingua della libertà», finché realizza paradossalmente che si sente «radicata a Roma». Rivalutando e sovvertendo il proprio passato, sviluppa una scrittura femminile ibrida, potenzialmente plurilingue e trasparentemente transculturale, costruendo un’eccezionale autenticità circolare tramite la tecnica innovativa di un transcultural switch (svolta transculturale). Identificando la migrazione come una condizione esistenziale e convertendo la sua vocazione per l’altro in un’utopia transculturale, Lahiri intende risvegliare nel lettore una sensibilità per tutto quello che potrebbe percepire come altro, diverso o straniero. In altre parole offre un moderno concetto di Letteratura italofona transculturale nell’era globale, creando le basi per futuri Studi Transculturali indo-italiani o asiatici-occidentali o anche italo-europei.

[…] n’è sempre una, e questa è stata la delusione del mese. Di Jhumpa Lahiri avevamo parlato in IN ALTRE PAROLE, IN UN’ALTRA LINGUA, L’ITALIANO (recensione di “In altre parole“ di Jhumpa L… e pensavo che questo libricino di sole 80 pagine mi avrebbe traghettata con agio nel nuovo mese, ma […]
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