Il ventunesimo incontro del Caffè Letterario di Zurigo (11 novembre 2022)

Dopo un incipit che promette una rievocazione storica e un’epica della memoria, ci aspetteremmo un romanzo che segua le orme se non di Tolstoj o Proust, almeno di Fenoglio o di Rigoni Stern. E invece…
Così inizia infatti «La trionferà» di Massimo Zamboni (Einaudi, 2022):

Accade. Capita di rado, ma accade. Ed è come se tutti i motori decidessero di arrestarsi, le auto scomparissero e nel frastuono cessato la società civile suonasse la ritirata. L’alba nata dal mare spazza la pianura, il cielo coinvolge lo sguardo collettivo e nell’incantamento universale agli emiliani che guardano verso settentrione appaiono le cime prealpine. In quella luce rosa che afferra l’intero panorama ogni dettaglio si riduce a una grandiosa inezia, e tutto sembra immobile e genuflesso come al passaggio di una Incoronata. Questa è la soluzione. L’attimo in cui percepisci di vivere in una conca e che quel nostro gran daffare è tutto lí, chiuso su tra i fiumi, tra l’Alpe e l’Appennino, tutto quello che s’è detto e che diciamo, il combattere il vivere il morire, sorgere e decadere, tutto abbracciato in un unico sguardo dove si alternano tenerezza e maledizione. Si chiama casa, questa valle padana di lacrime.
Casa. Noi, questa terra, la sua unicità. Cantarla per costruire non una memoria, ma un’epica della memoria, magnificarla come nell’antico e con quel canto creare un fondamento per ciò che sarà.

Il canto epico di Zamboni, evocato in modo così enfatico e retorico, si concentra sulle vicende storiche e politiche di Cavriago (Reggio Emilia) e percorre velocemente i tanti lustri che dall’inizio del Novecento arrivano al giorno d’oggi. Si tratta di una storia parzialmente nota, se si pensa ai grandi avvenimenti come la rivoluzione russa o lo stalinismo, ma circoscritta al reggiano, con i suoi abitanti dall’indole impulsiva e indisponibile alla sottomissione, l’albero della Libertà e la statua di Lenin (c’è ancora oggi). Il motto su cui si basa il senso del racconto, la politica è l’esserci di tutti, fa da “sostrato” alla lotta di classe e alla resistenza al fascismo. Il protagonista è Abbo, detto il Principe, il riferimento costante è il Partito Comunista Italiano, fino al Sessantotto e agli anni del terrorismo, fino alla sconfitta storica del comunismo russo. La parte finale è contraddistinta da tratti autobiografici legati all’ambito familiare dell’autore, rimasto nonostante tutto fedele negli anni ai miti dell’Unione Sovietica e alla linea seguita dai comunisti italiani e dalla FGCI (è evidente la lontananza di Zamboni dal movimento del Sessantotto). La narrazione in questa parte conclusiva mostra un rallentamento significativo, che non può dispiacere al lettore. Fino a quel punto il libro si presenta espressamente come una reazione al Don Camillo di Guareschi, i cui libri e film vengono più volte citati in chiave polemica. Zamboni, per quanto consapevole della sconfitta storica del comunismo, rifiuta lo spirito di conciliazione di Guareschi e nonostante tutto pronuncia parole di fede nei suoi ideali di gioventù e nella bandiera rossa:

E se non saremo noi a vederla trionfare, e se non sarà da noi e avrà altri nomi forse, altri modi, chissà dove, duecento, trecento, mille anni, vedrete: la trionferà

Non per niente Zamboni, che è anche musicista rock, ha fondato anni fa il gruppo di punk filosovietico   Cccp Fedeli alla linea.

Il romanzo di Zamboni è stato letto e discusso dal Caffè Letterario di Zurigo l’11 novembre scorso e non è piaciuto, sebbene abbia una buona critica. Già autore di due libri come «Nessuna voce dentro» e «L’eco di uno sparo», Zamboni, con la sua terza opera, non ha convinto i presenti all’incontro. La sua epopea di Cavriago è un tuffo nel passato che oggi risulta un po’ anacronistico. Ma è soprattutto il tono poco fluido e piatto della narrazione, con questo accavallarsi di eventi, personaggi, vicende minute, e il modo di raccontare uniforme e slegato a non aver avvinto i membri del Caffè alla lettura, spesso difficoltosa e noiosa (una lettrice del gruppo ha addirittura avuto un moto di rifiuto, gettando via il libro). Vero è che la parte finale, in cui troviamo un racconto in prima persona e molti tratti autobiografici, per alcuni è stata meno monotona e più interessante, più “sentita” perché personale, ma le perplessità di fondo rimangono. La Cavriago di Zamboni non pare aver avuto la meglio sulla Brescello di Guareschi, anzi. In una recente intervista Zamboni ha dichiarato di detestare i romanzi in cui c’è troppa invenzione a scapito dei fatti, che lui invece privilegia; ma i lettori del Caffè non hanno apprezzato proprio la sua nuda e cruda esposizione di luoghi e di fatti.

Un merito, però, è da riconoscere al libro di Zamboni, quello di aver suscitato un dibattito sentito e molto partecipato all’interno del gruppo. Sono tante le domande a cui è difficile rispondere oggi, dai motivi dell’insuccesso del comunismo, a ciò che dovrebbe fare in generale una forza politica che si dica di sinistra per essere convincente. Ognuno ha detto la sua, raccontando anche il suo vissuto personale e spiegando ciò che la politica dovrebbe fare per migliorare le nostre vite. Alla fine dell’incontro il gruppo si è sentito più unito e motivato nel suo interesse per la cultura, la lettura e la politica. Almeno questo merito possiamo riconoscerlo al libro di Zamboni.

3 commenti

  1. […] Il ventunesimo incontro del Caffè Letterario di Zurigo (11 novembre 2022) in cui Vittorio vi ha offerto un resoconto dell’ultimo incontro del caffè letterario di Zurigo. Protagonista della serata è stato un romanzo di Massimo Zamboni dal titolo La trionferà. Si tratta di un’opera in cui «Zamboni, per quanto consapevole della sconfitta storica del comunismo, rifiuta lo spirito di conciliazione di Guareschi e nonostante tutto pronuncia parole di fede nei suoi ideali di gioventù e nella bandiera rossa». […]

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