Un’occasione mancata: Il Premio Strega e «Ferrovie del Messico» di Gian Marco Griffi

Lo spettro che da un anno si aggirava tra le patrie lettere, e che nel numero precedente auspicavo che potesse sparigliare le carte dello Strega, era Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi (cfr. il mio articolo AMLETO AL PREMIO STREGA: il dilemma dell’esserci o non esserci). Uno sconosciuto pubblicato da una piccola casa editrice, che dopo vari riconoscimenti (Libro dell’anno di Fahrenheit, Premio Mastercard Letteratura), candidato da Alessandro Barbero era giunto nella dozzina. Avevo anche scritto che se per un caso (improbabilissimo) lo avesse vinto, il Premio avrebbe mostrato di non essere un torneo scontato. Invece con l’esclusione già dalla cinquina ha ancora una volta ribadito la prevedibilità e la squalifica di cui soffre da decenni. Che cosa c’era dunque di così straordinario nel libro di Griffi, da indurmi alla provocazione? Soprattutto, lo ammetto, l’apparizione di un romanzo decisamente anomalo e vivaddio fuori dall’andazzo corrente. Ma ora che il romanzo di Griffi è stato escluso, dopo le ragioni per cui auspicavo che vincesse, posso dire anche quelle per cui non mi ha del tutto convinto. 

La vicenda, al tempo stesso semplice e spaesante, si svolge durante le battute finali della seconda guerra mondiale ad Asti. Qui, presso il Comando della Guardia ferroviaria della Repubblica di Salò, al soldato Cesco Magetti, angustiato da un mal di denti  incurabile perché il suo dentista è stato arrestato e non si fida dei “macellai squilibrati”, viene affidato, a lui che in Messico non ci è mai stato e non sa nemmeno bene localizzarlo, il bislacco incarico di realizzare una mappa dettagliata delle sue ferrovie! Durante il lavoro di ricerca, Magetti è fulminato dalla bibliotecaria Tilde, i cui occhi verdi gli ricordano i boschi della Turingia di cui non sa nulla, e il cui nome da segno grafico (curioso che questo però lo sappia) gli rievoca “un pesce che guizza nei torrenti di montagna” o “la coda di un puledro lanciato al galoppo”. La ricerca lo mette inoltre in contatto con personaggi fuori dall’ordinario: come Bardolf Graf, un mutevole fanatico cattolico, ebreo, ateo, testimone di Geova, ma possessore di ben trentacinque bibbie antiche; una fattucchiera sarda capace di guarire gente malvagia; il guardiano di cimitero Angelito Zanon, che seppellisce e riesuma i cadaveri per bollirli per conto dei tedeschi; l’oppiomane Edmondo Bo, eremita di una chiesa sconsacrata, e appassionato di poeti suicidi.

Già da questa traccia sommaria si possono cogliere alcune peculiarità del romanzo, come l’esagerazione, il grottesco, il gusto per l’affabulazione gratuita, la voglia di divertirsi e divertire. Niente di male: se non fosse che questa piacevolezza va avanti per la bellezza di 800 pagine, in un formato con caratteri generosi è vero, ma piuttosto scomodo da maneggiare. Un’ipertrofia di cui non si vede la ratio, se non che i libri giganteschi infondono più autorevolezza dello striminzito libercolo alla portata di uno studente; o l’altra, più ambiziosa, di porsi da controcanto italico al 2666 di Bolaño o Infinite jest di Wallace. E intanto, perché no, strizzare anche l’occhio a tomi nostrani di pura “scrittura”, da Gadda a D’Arrigo, decisamente eccentrici rispetto al nostro monotono canone “per voce sola” (e basti il titolo…)

Quello di Griffi, insomma, si vuole, e per molti aspetti è, un’opera mondo. Ma del romanzo massimalista conserva solo alcune caratteristiche esteriori. A partire dalla polifonia, che qui  consiste in una serie di narrazioni a incastro, evocate da persone che riportano cose dette da altri, e nei cui referti si intrecciano pochi personaggi in spazi ridotti. Sicché, malgrado i continui e fuorvianti scarti di analessi, prolessi, multifocalità, plurilinguismo, indeterminatezza, la storia principale si segue senza intoppi, e nel caos apparente il lettore ritrova sempre l’asse narrativo fondamentalmente centripeto, perché lo straniamento è di fatto un allineamento. Lo stesso dicasi per le didascalie in testa a ogni paragrafo, che sono invece clausole decorative che nessuno legge, e che servono solo a dare al libro una vaga veste postmoderna. Sicché, dopo aver percorso un labirinto ingarbugliatissimo ma di monotona schematicità, alla fine ci si ritrova al punto di partenza come se non ci si fosse mai mossi.  

Beninteso non mancano in questo romanzo d’avventura escursioni erudite, e sorprendenti (benché poche) frasi di un certo spessore. Ma ciò che maggiormente caratterizza la scrittura è un materiale magmatico fatto di detriti e scorie, con insistenze analogiche, accumulazioni, frasi insignificanti dette e ripetute, termini tecnici e specialistici, dialettalismi e persino luoghi comuni: che mescolati con similitudini kitsch creano un rumore di fondo indistinto che si vorrebbe allegoria della cacofonia in cui si spegne la comunicazione odierna. Il tutto è comunque reso in una forma fluida, ora letteraria ora ibrida ma sempre scorrevole, anche nei rimandi iper e intertestuali. Ma le aperture espressionistiche al poetichese, gli elementi dialettali e gergali, pur se aggiungono colore a una prosa eclettica e variegata, di fatto la staticizzano in moduli fissi, dove il debordamento è dato dalla generazione per derivazione, riprese e diluizioni, tanto da ingenerare stucchevole e inutile ipertrofia. Né migliora le cose una sintassi obbligatoriamente paratattica (con cui anche questo romanzo “originale” paga scotto alla convenzione), specchio di una focalizzazione quasi sempre insistita sul protagonista, a rinnegamento dell’apparente polifonia. Ma c’è di più.  Nel tentativo di irridere al grottesco dei regimi, dissacrare il mondo militare e la farsa su cui si regge, smascherare il lato ridicolo della guerra, il romanzo adotta un’ottica sfacciatamente manichea tra personaggi positivi e negativi, così che, malgrado i giochetti postmoderni (il manoscritto che non si trova, un mondo di poeti, il cosmopolitismo forzato) tutto si appiattisce a narrazione consolatoria. 

Si aggiungano, pecche a mio parere fatali, l’assenza di spessore psicologico e di problematizzazione tematica, se si esclude qualche raro sprazzo aforistico. Ne consegue che a lettura ultimata resta l’impressione di uno scanzonato divertissement, di uno sbrigliamento di brillio troppo fine se stesso, che se fa il romanzo spesso spiritoso lo rende ancora più spesso irritante e non necessario. L’intelligente e abile Giulio Mozzi, che tanto si è speso per pubblicizzarlo e imporlo, ha detto che durante l’editing ha passato mesi a visionarlo parola per parola insieme all’autore. Mi chiedo, e chiedo a lui, se tutte le accumulazioni, le ripetizioni, le riprese, gli annacquamenti, tralasciando la punteggiatura ovviamente approssimativa per avarizia di segni grafici, erano davvero essenziali. Giudicate voi da questo estratto di pag. 207, che si vorrebbe parodia di Hitler e Eva Braun, ma che a me sembra piuttosto una caricatura di se stesso…  

La parola outfit, disse Eva, l’hai appena pronunciata. 
Ma era soltanto per promettere di non pronunciarla mai più, si giustificò Adolf. 
E va bene, disse Eva, ripeti la promessa e per questa volta potrai tenerti i tuoi baffi. Ancora?
domandò Adolf, indispettito. 
Ancora, disse Eva. E ancora. 
Prometto sui miei baffi che non pronuncerò mai più la parola che non posso pronunciare, disse Adolf. 
E quale sarebbe?, domandò Eva. 
Come quale sarebbe?, domandò Adolf. 
Quale sarebbe la parola che non puoi pronunciare, disse Eva. 
Abbiamo appena concluso che non posso pronunciarla, disse Adolf. 
Ma se nella promessa non la enunci, disse Eva, la parola che tu prometti di non pronunciare mai più potrebbe essere una parola qualunque. 
Come una parola qualunque?, domandò Adolf.

E non è questo l’unico. Per cui, tra qualità e difetti, mi sono persuaso che con 400 pagine in meno (ossia la metà) Ferrovie del Messico sarebbe stato un romanzo sorprendentemente originale. Da Rabelais a Joyce non mancano capolavori che hanno fatto della lingua il loro punto di forza. Solo che se ne esce più ricchi e turbati, e con qualche affondo in più nella comprensione dell’uomo. Qui invece si ha l’impressione di aver assistito a un fuoco d’artificio di sagra paesana, a un film surreale, a una commedia che strappa un sorriso e molta irritazione. Per questo, mentre parlavo dello Strega come di un’occasione mancata, la stessa cosa pensavo anche di Ferrovie del Messico… 

***********

Tra le tante recensioni che ho letto ci tengo a segnalarvi quella di Fabrizio Maria Spinelli: “Ferrovie del Messico”, il romanzo massimalista italiano, Bolaño, la morte

5 commenti

  1. Buondì Gerardo. Invitato a rispondere, rispondo. Non condivido il giudizio sulla punteggiatura (che a me non pare per niente approssimativa). Ma sulla questione essenziale posso dire solo questo: si sarebbe potuto, sì, lavorare su questo libro dimezzandolo. Sarebbe diventato un altro libro, scritto con un altro stile, probabilmente con una diversa articolazione della storia. Non è mia abitudine fare ai romanzi di queste violenze. Non ha senso lavorare su un romanzo fatto in un certo modo, la cui natura è essere in un certo modo, cercando di farlo diventare un altro romanzo fatto in un altro modo. Ciò detto, e passando al piano del gusto, confesso che tutta quell’esuberanza a me piace, diverte nelle parti divertenti, commuove in quelle commoventi, eccetera. A me quel romanzo sembra molto bello così.

    "Mi piace"

    • Capisco il tuo punto di vista e apprezzo la tua discrezione e il rispetto verso il testo che avevi in mano. Forse ho calcato troppo su ciò che non mi ha convinto evidenziando poco i pregi che pure riconosco.
      Ho scritto l’articolo un po’ in fretta per la scadenza che avevo, e mi rendo conto di alcune imprecisioni, come chiamare didascalie le date all’inizio dei capitoli (di cui comunque non ho capito la necessità).
      Complimenti comunque a Griffi per quest’opera insolita, e a te per la grande dedizione con cui l’hai accompagnato per un anno.

      Piace a 1 persona

  2. Ho però una domanda. Tu parli delle “didascalie in testa a ogni paragrafo, … e che servono solo a dare al libro una vaga veste postmoderna”. Ma non mi risulta che ci siano didascalie in testa a ogni paragrafo. Ci sono i titoli dei capitoli, tutti nella forma “luogo + data”, tranne i tre capitoli della curandera che hanno anche l’accenno alle sigarette.

    Piace a 1 persona

Scrivi una risposta a passannante51 Cancella risposta