«Al giardino ancora non l’ho detto» di Pia Pera.

Questo articolo esce per la nostra rubrica Pillole di narrativa


Al giardino ancora non l’ho detto, pubblicato dalla casa editrice Ponte alle Grazie nel 2016 e vincitore del Premio Rapallo nello stesso anno, è l’ultimo libro scritto da Pia Pera prima di morire (proprio nel 2016) per una malattia neurodegenerativa che lei chiama nel romanzo “malattia del motoneurone”.
Il libro si apre su una premessa scritta dalla stessa autrice, appassionata di giardinaggio e traduttrice, che contiene una poesia di Emily Dickinson, I haven’t told my garden yet, da cui è tratto lo stesso titolo. Il tema è il rapporto tra il giardiniere e la morte; infatti, l’ assenza del primo è interpretata come tradimento involontario, non colpevole, quando verrà il giorno in cui le sue cure rivolte al giardino non saranno più possibili e la natura tornerà a essere l’unica forza in campo. “Un pittore, uno scultore, un architetto, per non dire un poeta, sono meno sleali verso la loro opera. Creano qualcosa che, almeno in potenza, può continuare a vivere dopo di loro”. Il giardino, al contrario, è opera effimera, transitoria.

Un giorno un amico fa notare alla scrittrice una leggera zoppia, che poi si rivela essere il primo segnale di una malattia grave, che irrompe nella sua vita e diviene l’occasione per scrivere questo libro.

Il racconto di Pia Pera si muove in un presente continuo che ruota intorno al giardino-orto, che da anni coltiva e cura, e si srotola sul modello della confessione-dialogo con il lettore, una sorta di diario della malattia (Sla) e della conseguente e progressiva perdita di autonomia. Tuttavia, Pia Pera affronta la malattia con una serenità composta, che ricava dalla bellezza del suo giardino, da cui ha scelto di non separarsi. Dunque, se da un lato la drammaticità del racconto irrompe con forza, dall’altro traspare una tranquillità che è direttamente proporzionale alla confidenza che l’autrice prende man mano che si concretizza in lei l’idea della morte.
Ma, paradossalmente, il libro non parla soltanto di malattia; difatti la gioia di vivere emerge dalle pagine del romanzo in cui il giardino diventa immagine miniaturizzata del creato, è sempre lì presente, nella sua interezza o tramite un fiore o una pianta, cui alla fine la stessa Pera assomiglia: ormai non riesce più a muovere le gambe e, come il suo giardino, ha bisogno delle cure altrui, delle visite e del calore degli amici.
Il racconto induce ad una trasfigurazione spirituale. Il giardino è simbolo della vita, “perché in giardino si compiono cicli di resurrezione”.

Il giardino e l’autrice nel romanzo diventano speculari, protagonisti entrambi della naturale caducità dell’esistenza, che solo la piena consapevolezza elargita dalla malattia restituisce in modo accuratamente decifrabile.

Non vi sono scomputi in questo libro, eppure non vi si trovano lamenti, lacrime o ricerca di compassione.

Vi è, al contrario, una nitida abilità nel far scorrere tra le pagine le perplessità, la sofferenza e le emozioni di un essere umano che si prepara, con garbata coscienza e accettazione, alla dipartita.

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