Zarathustra: l’esaltazione dionisiaca dell’esistenza

Questa è la seconda puntata di un ciclo di 4 dedicate a Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche. Qui trovate le altre


I grandi discorsi di Zarathustra prendono avvio da una specie di apologo, in cui il profeta illustra le fasi successive della metamorfosi che porta all’affrancamento dell’animo umano: dall’obbedienza (rappresentata dal cammello) alla negazione violenta (rappresentata dal leone) e infine alla pura affermazione (rappresentata dal fanciullo). La predicazione sviluppa poi in ordine sparso altri temi: contro la pusillanimità dei mediocri che si rifugiano nella sonnolenza della morale, dove trovano un tranquillo e inerte rifugio i pigri e i vili; contro la trascendenza religiosa, che scorge nel mondo il prodotto di un “dio tormentato”; contro le astrattezze della metafisica, che scredita i valori terreni; contro gli spregiatori del corpo e i “tisici dell’anima, che appena nati cominciano a morire, e si volgono verso dottrine di stanchezza”,ignorando che l’anima è una parola per esprimere qualcosa di sostanzialmente corporeo; contro le rinunce imposte dalla vita ascetica che si perde in mistici vagheggiamenti e “persuade alla morte”. Altri strali scaglia ancora il profeta contro il piatto conformismo della cultura accademica “troppo sedentaria”; contro lo stato politicamente organizzato, che in nome di un’entità astratta soffoca la libertà degli individui e li obbliga ad una mortificante quanto innaturale uguaglianza. 

Ai discorsi polemici, alle negazioni assolute, si accompagnano numerose affermazioni che esaltano l’amore per le virtù terrene e l’invito all’innocenza dei sensi. Zarathustra esalta così l’amicizia bella e spontanea (da non confondere con l’amore per il prossimo, che è solo una cattiva forma di amore per se stessi); esalta la guerra, la lotta violenta che stimola le forze più genuine; celebra la virtù che si dona in uno slancio generoso e inestinguibile, che acquista una diversa valenza morale.

Dopo un primo ciclo di predicazioni, Zarathustra si rifugia di nuovo nella propria solitudine per un periodo imprecisato di tempo (mesi e anni). Dopodiché ritorna in pubblico, per riprendere la sua azione di proselitismo. È questa la volta dei discorsi contro l’obbedienza, con l’invito perentorio alla libera esaltazione dell’uomo: che, in pienezza di gioia, celebra il trionfo della vita e della volontà individuale. Ogni debolezza, ogni soggezione, ogni schiavitù deve essere vinta. Le religioni codificate, la politica, l’uguaglianza, la dottrina ufficiale, la virtù intesa come complesso di norme costituite. Sono questi i pregiudizi contro cui l’uomo superiore deve combattere la sua guerra. Insieme ad altri discorsi, questo secondo ciclo comprende anche tre canti di grande bellezza poetica: come il Canto notturno, che è un’esaltazione della felicità di donare; La canzone a ballo, omaggio alla vita spontanea degli istinti; e Il canto funebre, che esalta la volontà dell’uomo. 

Qui di nuovo Zarathustra interrompe la predicazione, e per la terza volta si rifugia nella solitudine. Passa altro tempo ancora, prima che il saggio, ormai vecchio ma folgorato dall’intuizione dell’eterno ritorno, riscenda ancora tra gli uomini per predicare stavolta l’esaltazione pagana e dionisiaca dell’esistenza, nel suo perenne rinnovarsi, nella sua irrazionalità ordinata, nei suoi ritorni ciclici. Questo terzo periodo di predicazione, caratterizzato dall’esplicito ammonimento ad abbandonare la gravità, la saggezza, la malinconia, è certamente la parte più accesa di tutta l’opera, che trova il suo centro lirico e profetico negli ammaestramenti del saggio che tenta di convincere i discepoli ad affidarsi all’energia vitale di una vita libera dal freddo ed inutile dominio della ragione. 

L’ultima parte del libro è forse invece quella che più direttamente rivela l’intenzione simbolica e allegorizzante dell’autore. Zarathustra incontra 7 personaggi, che rappresentano i diversi stadi dell’umanità nei suoi miti perenni: l’indovino, il monarca, il coscienzioso dello spirito, il mago, l’ultimo papa, l’uomo più brutto del mondo, e il mendicante volontario. Per qualche momento il profeta spera che costoro siano gli uomini superiori, i veri discepoli che va cercando. Ma anche questa certezza sembra dissolversi di fronte al sonno in cui essi cadono, e da cui il saggio non riesce a svegliarli. Solo i suoi animali, l’aquila col serpente attorno al collo, simboli della forza e dell’astuzia, sono desti con lui. E allora, nell’attesa dei veri uomini, ma nella certezza della raggiunta maturazione spirituale, tra un volo di colombe e l’accovacciamento del leone ai suoi piedi, l’opera si chiude. E Zarathustra, sentendo ormai giunta la sua ora definitiva, abbandona per sempre la caverna. 

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