DAL DRAMMA AL MELODRAMMA

Il teatro del ‘700 (2/2)

di Gerardo Passannante

Del miglior teatro del Settecento ho già detto nell’ultima pagella. Qui mi occupo di quelle opere che non sempre hanno raggiunto il livello delle precedenti, ma che sono comunque di buona e talvolta ottima fattura, come nel caso di Beaumarchais e di certo Metastasio. Solo che per il Settecento, come avverrà col secolo successivo, non ho potuto ignorare alcuni lavori teatrali che, adattati a libretti, sono diventati celebri per essere stati musicati da illustri compositori. Il che ha surrettiziamente inciso anche sulla mia valutazione, a volte condizionata dalla riuscita musicale, dettandomi qualche indulgenza verso il modesto valore letterario di testi che altrimenti non sarebbero sopravvissuti. L’ordine seguito questa volta è quello cronologico della composizione/esecuzione. Pertanto anche la valutazione non sarà discendente, ma a singhiozzi alterni.

Per sapere come nasce questa rubrica ☛ Le mie pagelle letterarie
Per leggere la prima puntata ☛ Poeti del ‘700: le mie pagelle
Per leggere la seconda puntata ☛ Scrittori del Settecento: le mie pagelle
Per leggere la terza puntata ☛ Teatro del ‘700: le mie pagelle (1/2)


Pier Iacopo Martello (1665-1727) – Ifigenia in Tauride (1709) ★★★★★★☆☆☆☆
Tra le sue 12 tragedie sembra che l’autore privilegiasse questa Ifigenia in Tauride, con argomento ripreso direttamente da Euripide, la cui lineare semplicità scompare però tra i fronzoli del nuovo travestimento. Non manca qualche scena ben condotta e qualche situazione felice. Ma vi sono particolari che solo un pubblico avvezzo alle galanterie del teatro francese e alle svenevolezze sentimentali dell’Arcadia poteva digerire. In questa cosetta, comunque, l’autore usò per la prima volta il verso “martelliano” di cui detiene la paternità. Prima della fine del secolo ci avrebbe pensato Goethe, riprendendo il titolo, a mostrare come un moderno poteva gloriosamente competere con i grandi modelli antichi…


Apostlolo Zeno (1668-1750) – Alessandro Severo (1716)
★★★★★★☆☆☆☆
Questa tragedia, basata sul racconto storico di Erodiano, bypassando qualsiasi ambizione di valore, presenta scene macchinose e fantastiche dagli effetti eminentemente pratici. Funzionali però in un libretto che, sfruttando le alternanze tra recitativi e arie, con canonica chiusura di strofette, dovette piacere alla trentina di compositori che misero in musica questo schema di efficace teatralità, compreso il grande Pergolesi. 


Pietro Metastasio (1698 -1782)Didone abbandonata (1724)
★★★★★★☆☆☆☆
Il tema virgiliano è sagacemente adattato dall’autore a rappresentare la lotta della donna ferita nel suo amore e nella sua dignità. Con accenti persuasivi, Metastasio conduce però l’intreccio in situazioni assurde, in una forma leziosa e frigida anche nei tratti più intensamente passionali. Ma la lingua presenta quelle caratteristiche di grazia e scioltezza che si ritrova in tutti i suoi melodrammi, musicati da compositori grandi e piccoli, come Sarro, Jommelli, Mercadante, Porpora, Pergolesi, Galuppi, Jommelli, Cimarosa, Hasse, Gluck. Per giungere, dulcis in fundo, a Mozart.


John Gay (1685-1732) – L’opera del mendicante (1728) 
★★★★★★☆☆☆
Questo dramma satirico in prosa e versi già dall’introduzione, a sipario chiuso, presenta il presunto autore, a cui attori, ladri, ricattatori, donne di malaffare, avvocati e carcerieri, tentano di spillare denaro. Anche se la vitalità e i paradossi col passare del tempo hanno perso un po’ in attualità, la vena facile di Gay produsse l’unica opera teatrale durevole del suo tempo, portando sulla scena il vigoroso spirito satirico alla Swift, peraltro suo amico. Ripresa due secoli dopo a Berlino col titolo di Opera da tre soldi, nella rielaborazione di Brecht e Kurt Weill, divenne allegoria sociale e morale di tempi a noi più vicini.


Pietro Metastasio (1698 – 1782) – Semiramide riconosciuta (1729)
★★★★★★☆☆☆☆
È questa una delle invenzioni sceniche più complicate del Metastasio, che alle scarse notizie sulla regina ritenne di dover aggiungere l’antefatto del complesso familiare che la facesse rientrare nello schema da lui prediletto. La macchinosa composizione è zeppa di equivoci. Ma i melodrammi di Metastasio sono spesso così assurdi perché giocati sull’illusione del vero, come condizione stessa del fatto scenico. E anche qui, a riprova della vitalità del dramma, si mossero molti musicisti, da Cesti a Gluck, da Porpora a un Leonardo Vinci che con disinvoltura portava a spasso allegramente quel po’ po’ di nome!


Jacopo Angelo Nelli (1673 – 1767) –La serva padrona (1731)
★★★★★★☆☆☆☆
È il lavoro più noto di questo autore, che, scegliendo personaggi provenienti dalla commedia dell’arte, cercò di conservare la vivacità e i valori umani di Molière, senza mancare di dare qualche coerenza all’intreccio. Dalla commedia prese spunto un modesto libretto, di cui Giambattista Pergolesi fece un gioiellino musicale, che malgrado la morte precoce del compositore suscitò entusiasmo a Firenze, Venezia, Trieste, Amburgo, Praga, Parigi, Vienna, Copenaghen, Londra e Barcellona. E fu una delle prime opere a varcare l’atlantico, per essere rappresentata nel 1790 a Baltimora.


Pietro Metastasio (1698 – 1782) – L’Olimpiade (1733)
★★★★★★☆☆☆
Composta in occasione del genetliaco dell’Imperatrice Elisabetta, L’Olimpiade è uno dei più felici libretti del poeta cesareo per facilità di composizione e intrigo romanzesco, dove le peripezie evidenziano sia le pene d’amore che la volontà sacrificale. Anche se, grazie alle ariette, il melodramma ricrea una suggestiva atmosfera che guida le creature alla destinata felicità, il tono fondamentale resta quello di una contenuta mestizia, non priva di drammaticità pur nei toni lirico-elegiaci scaturiti da un’ispirazione intima e affettuosa, che scavalca il convenzionalismo teatrale. E fu forse questo a ispirare musicisti come Antonio Caldara, Leonardo Leo, e soprattutto Giambattista Pergolesi.


Abate PellegrinIppolito e Aricia (1733)
★★★★★★☆☆☆
Curioso questo personaggio che teneva a Parigi bottega aperta di epigrammi e madrigali, ma che in questo caso scrisse un lavoro dignitoso per nobiltà di argomento, ispirandosi al grande modello di Racine. Il libretto invero è debole e superficiale, e più che una riduzione può dirsi una deformazione dell’originale, facendo passare Fedra in secondo piano, per lasciare il posto alle artificiali effusioni amorose di Ippolito e Aricia. Ma a Pellegrin, che possedeva il senso del teatro come pretesto ad azioni coreografiche, interessava solo offrire ai compositori una varietà di episodi e situazioni, tali da indurre persino un Rameau ad accettare il libretto.


Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) – L’indovino del villaggio (1752)
★★★★★★☆☆☆
Oltre ad essere uno degli indiscussi protagonisti del ‘700, per l’impronta indelebile lasciata nel romanzo, nella saggistica filosofica e nella memorialistica, Rousseau fu anche un abile compositore di opere di cui approntò egli stesso il libretto. La migliore, L’indovino del villaggio, composta nell’arco di un mese, lungi dall’essere il lavoro di un dilettante, ci presenta un musicista esperto che si accosta al gusto dell’opera italiana conosciuta durante il soggiorno nella penisola, che gli procurò, insieme al successo, fastidi di invidia e l’ironia dei puristi francesi.


Ranieri de’ Calzabigi (1714 – 1795) – Orfeo e Euridice (1762)
★★★★★★☆☆☆
Per il numero ridotto di personaggi (Orfeo, Euridice, e Amore in sostituzione del tradizionale Plutone), e per la semplificazione della trama, il libretto levita in un’atmosfera di leggenda, ora idillica ora cupa e fantastica, relegando sullo sfondo la vicenda drammatica. Percependone l’unità di ispirazione, Gluck (sì, proprio quello della via di Celentano) vi innestò poi un geniale colorito orchestrale, tanto che l’opera fu rappresentata come manifestazione di una tendenza riformativa. Diciamolo: la celebre aria Che farò senza Euridice? Calzabigi avrebbe potuto ripeterla anche per sé stesso: Che farò senza Gluck?


Carlo Gozzi (1720-1806) – Turandot (1762)
★★★★★★☆☆☆
Fondata su alcuni motivi delle Mille e una notte, questo curioso canovaccio abbozza sia la maestà superba di Turandot che la cavalleresca pateticità di Calaf. Li annuncia solo, certo: ché l’esaltazione retorica dell’amore e la metamorfosi di Turandot hanno scarso rilievo psicologico, e le maschere della commedia dell’arte, con la loro comicità realistica che dovrebbe fare da ironico contrappunto, appaiono decisamente stonate. Ma l’azione presenta scene di sicuro effetto teatrale, come quella degli enigmi e del colpo di scena finale, che dovette piacere ai contemporanei, visto che fu tradotta in tedesco da Schiller, e in quella traduzione messa in scena da Goethe a Weimar. Ci avrebbe poi pensato Puccini a trarne il suo ultimo, incompiuto capolavoro.


Ranieri de’ Calzabigi (1714 – 1795)  – Alceste (1767)
★★★★★★☆☆☆
Tra i molti libretti tratti dalla tragedia di Euripide, la concentrazione ottenuta in questo sul dramma interiore della protagonista è fondata sul progresso dei suoi stati d’animo, delle sue debolezze, dei suoi scatti di eroismo non privi di delicatezza. Per la semplificazione e la fedeltà agli ideali, il dramma risente dell’evoluzione dell’autore che, staccatosi dai fantasmi tragici e appena capace di accoglierne ancora qualche eco, spostò l’accento dall’energia della giovane sposa al sacrificio della madre che, compiendo il sacrificio all’insaputa di tutti, si dimostra superiore al proprio dolore.


Olivier Goldsmith (1728 – 1774) – Lei si abbassa per trionfare (1773)
★★★★★★☆☆☆
Senza mancare di espedienti ingegnosi, la commedia dipinge la vita quotidiana dei personaggi con ironia gradevole e affettuosa. Con visione tranquilla della psicologia dei sentimenti, Goldsmith porta per la prima volta sulla scena inglese personaggi che tendono alla caricatura, ma complica l’intrigo con una folla di incidenti comici che vivacizzano l’intimità di un tranquillo interno borghese. La commedia abbonda di umorismo e caratteri pieni di vita, e se manca la tensione è perché all’autore importa soprattutto la suite dei qui pro quo, a preparare il lieto fine.


Pierre-Augustin de Beaumarchais (1732-99) – Il barbiere di Siviglia (1775)
★★★★★★★★
Solo dopo molti sforzi Beaumarchais riuscì a far rappresentare Il barbiere di Siviglia, il cui esito fu però trionfale. Con essa lo scrittore aveva creato un tipo destinato ad avere grande fortuna, per il senso nuovo della realtà colto con arte consapevole nella figura di Figaro, barbiere sfaccendato e intrigante, nel cui simpatico dinamismo si fondono l’impulso e il calcolo, la generosità e l’interesse egoistico di uno spirito disinvolto che non risparmia nulla e nessuno. La tradizione comica già conosceva servi che aiutano i padroni nei loro amori e vecchi tutori innamorati e beffati. Ma qui per la prima volta il plebeo e l’aristocratico appaiono sullo stesso piano, e la nobiltà è implicitamente costretta a riconoscere la superiore pratica di vita del volgo, fino a imitarne mentalità e atteggiamenti. La commedia fu musicata da molti compositori: ma Il barbiere di Siviglia di Rossini, su libretto di Cesare Sterbini, doveva poi eclissarli tutti.


Friedrich Schiller (1759- 1803) – I masnadieri (1782)
★★★★★★★☆☆ 
In questo lavoro giovanile Schiller, con evidente influsso di Rousseau, ne trasforma gli inoffensivi “primitivi” in masnadieri violenti. Spinto da un’ingiustizia alla ribellione, il protagonista si mette a capo di un’associazione brigantesca, per vendicare angherie, iniquità e prepotenza, senza trascurare al tempo stesso delicati sentimenti d’amore e di melanconico rimpianto. Nell’impossibilità di superare il contrasto fra l’astratta virtù del volere e una vita segnata dall’assassinio e dalla distruzione sta la sostanza etica del dramma, quando l’eroe riconosce i propri errori e la necessità di subordinarsi all’ordine del cosmo. Fu con questo dramma che Verdi fece il suo primo, ma non ultimo incontro, con Schiller.


Pierre-Augustin de Beaumarchais (1732-99) – Il matrimonio di Figaro (1784)
★★★★★★★★
Continuazione ideale del Barbiere, quest’operapiù complessa e articolata volge talora al farsesco e talaltra al drammatico. Ché se là persisteva ancora un distacco tra le varie categorie sociali, qui esse, quella giovane e protesa verso il riconoscimento del diritto all’amore e alla famiglia, e l’altra vecchia e decrepita che si avvia verso l’inevitabile crollo, si confrontano da pari a pari. La commedia trovò imitatori ovunque, e tra le mani di Da Ponte fruttò un altro capolavoro di Mozart.


Lorenzo Da Ponte (1749-1838) – Le nozze di Figaro (1786)
★★★★★★☆☆
Appoggiandosi già sul sicuro effetto della commedia di Beaumarchais, Da Ponte si destreggiò abilmente nel caratterizzare l’arroganza del conte, la malinconia della contessa, la furia di Figaro e l’audacia di Susanna, riversando sulle emozioni una essenzialità senza dispersione. In tal modo la storia conservò il valore di una perfetta coincidenza tra scene serie e comiche, già prima che Mozart, con inquietante drammaticità, la sollevasse a quote universali.


Lorenzo Da Ponte (1749-1838) – Don Giovanni (1787)
★★★★★★☆☆
Il personaggio di Don Giovanni è uno dei più inflazionati dell’intera letteratura. A partire dalla sua apparizione come Burlador de Sevilla, schiere di autori si sono ispirati ad esso in tutti i campi dell’arte, ognuno tracciandone un profilo diverso, a conferma della sua versatilità. Indubbiamente la prima grande riuscita fu quella di Molière, da cui Da Ponte trasse un libretto acconcio, per la sapiente distribuzione delle scene e la peruasiva, per quanto elementare, psicologia dei personaggi. La comicità delle situazioni trainate da un’irresistibile verve circola in quella che sarebbe un dramma giocoso, se il protagonista non guizzasse torbidi bagliori luciferini. Ambiguità questa che contribuisce non poco a fare dell’opera di Mozart uno dei più grandi capolavori della musica. A rendere ancora più intrigante la vicenda, si pensi che questo seduttore per antonomasia, delle cui conquiste il servo Leporello aggiorna continuamente il catalogo, qui va sempre in bianco, e per ragioni diverse risulta un maldestro sfigato che non ne azzecca una!


Lorenzo Da Ponte (1749-1838) – Così fan tutte (1790)
★★★★★★
In Così fan tutte, privo della sicura scorta di un testo solido, Da Ponte deve vedersela da solo. Ma gli riesce egregiamente, visto che, svincolato da modelli ingombranti, non smarrisce mai la rotta, come gli accadeva talvolta nei due libretti precedenti, ma presenta un’azione divertente, che col suo partito preso di simmetria e l’inverosimiglianza dell’azione potrebbe sembrare poca cosa. Se non fosse che l’intreccio, per quanto improbabile, è condotto con maestria: sicché ognuno dei sei personaggi affigge un preciso profilo caratteriale. Se una nota di riguardo merita la deliziosa Despina, è nel disincantato filosofo della scommessa che la visione dell’umanità traspare in bonomia superiore dal riso amaro. Ce n’era abbastanza perché vi attingesse a piene mani quel genio eminentemente ambiguo (altro che solare!) che fu Mozart.

3 commenti

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