
L’esilio americano di Thomas Mann iniziò all’università di Princeton nel 1938, dove ricevette un incarico di insegnamento. Insignito nel 1929 del Premio Nobel per la letteratura, in rotta con il nazionalsocialismo, aveva lasciato la Germania nel 1933. Nel 1939 tenne ai suoi studenti di Princeton una lezione in inglese su «Der Zauberberg» (romanzo pubblicato nel 1924, esattamente cento anni fa), lezione riportata in appendice nella penultima versione italiana del romanzo (a cui si fa riferimento, con la traduzione di Irvino Pocar per i tipi di Corbaccio, prima edizione 1965). Da notare che l’ultima traduzione in italiano, ad opera di Renata Colorni, ha seguito una nuova edizione critica e ha cambiato il titolo in «La montagna magica» (Mondadori, 2010).
Il discorso di Mann a Princeton ci aiuta a ricordare non solo i tratti salienti del romanzo, che in questa sede verranno integrati con gli opportuni riferimenti testuali, ma anche il valore e la profondità del suo romanzo. E nonostante le professioni di modestia di Mann, si rimane colpiti dalla sagacia delle sue osservazioni, che indicano agli studenti e a noi lettori le possibili linee direttrici di un discorso critico sulla «Montagna incantata». Nell’ambito del presente saggio, comunque, non verranno vagliate le tante interpretazioni del romanzo che poco hanno a che fare con la lezione di Princeton. In particolare, non verrà discussa l’idea che l’opera sia una sorta di discesa agli inferi e un epos sulla melancolia (commento di Luca Crescenzi a «La montagna magica», 2010). Neppure verrà approfondito, per motivi di spazio, l’esame dei rapporti di Mann con altri autori, per esempio Freud, come sarebbe possibile e opportuno.
Le parole di Mann (in corsivo in caso di citazione) all’inizio del discorso di Princeton sono chiare: i posteri vedranno probabilmente nell’opera un documento della psicologia europea e dei problemi spirituali dell’inizio del secolo XX; l’autore, pertanto, dal suo punto di vista, ne spiegherà innanzitutto l’origine e le esperienze ad essa legate.
Lo spunto autobiografico che ha ispirato l’autore risale al 1912, quando fece compagnia per tre settimane alla moglie ricoverata nel sanatorio di Davos, il celebre Berghof (oggi Berghotel Schatzalp; è qui che si svolge l’azione della «Montagna incantata»). Questo breve soggiorno gli diede l’idea di un protagonista, il giovane ingegnere Hans Castorp (giovane semplice ma simpatico), che fa visita in sanatorio a un suo cugino (Joachim Ziemssen), si scopre lui stesso malato e rimane nella clinica come degente. Mann si era trovato nella stessa situazione, ma con la differenza che lui si era rifiutato di rimanere, mentre Castorp accetta di trattenersi e vi rimane ben sette anni, fino allo scoppio della Grande Guerra. Le impressioni e le emozioni vissute in quei pochi giorni – riportate fedelmente nel capitolo «L’arrivo» – si erano impresse nella mente dello scrittore in un modo così forte da spingerlo alla redazione di un libro che, nonostante le intenzioni iniziali, lo avrebbe impegnato per ben dodici anni. Lo stimolarono l’emblematico mondo in declino dei sanatori e il motivo conduttore di un tempo trascorso in una sorta di sospensione, di perenne presente, in cui passato e futuro sembrano annullarsi. Era il “surrogato” della vita e si “offriva” a Mann con sembianze che esprimevano con la loro simbologia sia l’enigma dell’esistenza, sia il canto del cigno di un’epoca “incantata” e irripetibile. Il clima culturale della Belle Époque europea, vicina al tramonto, trovava nei sanatori l’espressione sua più efficace.
Mann a questo punto del suo discorso introduce una distinzione fondamentale: ci sono autori, come Dante e Cervantes, che nella loro vita scrivono una sola grande opera, e altri che invece creano una serie di opere tra loro strettamente legate, senza che una sola abbia la primazia sulle altre. Tra costoro c’è anche lui, che nel 1912, prima di iniziare «La montagna incantata», aveva pubblicato «La morte a Venezia» («Der Tod in Venedig»). Ebbene, Mann dichiara che la «Montagna incantata», romanzo pensato dapprima come riscontro umoristico della «Morte a Venezia», doveva essere nelle sue intenzioni soltanto un racconto breve (doveva essere un inserto nelle «Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull»); successivamente crebbe “autonomamente” nel corso di dodici anni fino a diventare qualcosa d’altro e di respiro molto più ampio del previsto. «La montagna incantata» nella sua stesura finale (in due tomi!) costituiva in ogni caso il frammento d’un complesso maggiore, del lavoro d’una vita, anzi della vita e della persona stessa, come tutte le sue opere maggiori. Sicché la relazione con la sua produzione passata risulta fondamentale, dai «Buddenbrooks» ad «Altezza reale» («Königliche Hoheit»), dal trattato critico-polemico «Considerazioni di un apolitico» («Betrachtungen eines Unpolitischen», 1918) alla «Morte a Venezia», e ciò vale anche per comprendere meglio gli scritti successivi, iniziando con i romanzi di Giuseppe. Con la nuova short story Mann intendeva mescolare il fascino della morte al divertimento, creando con l’ironia un’atmosfera ibrida, che intendeva ribadire il trionfo di un ebbro disordine (la malattia e la morte) sull’ordine voluto dal protagonista (Aschenbach nella «Morte a Venezia», Castorp nella «Montagna incantata»). Ma la materia (come negli scritti precedenti) iniziò a spaziare in un mare senza rive, si rivelò vieppiù ambiziosa, confermando quell’autoinganno necessario e produttivo dell’autore che inizia una sua opera ponendosi obiettivi limitati e che poi si dedica ad essa indefinitamente: un’opera può avere una sua propria ambizione, la quale magari supera di molto quella dell’autore, ed è bene che sia così. In aggiunta, lo scoppio della Grande Guerra provocò l’interruzione della stesura, influenzò il finale dell’opera e propose esperienze nuove, che ne ampliarono le tematiche di fondo. Il conflitto propose infatti nuovi dilemmi: la crisi della civiltà europea, il nuovo ruolo del patriottismo, il rapporto tra gli ideali estetici e le visioni “politiche” del presente, temi e domande così dirompenti e risposte così nette – quelle di Thomas Mann – tali da provocare la rottura temporanea con il fratello Heinrich, di orientamento democratico. Mann si era chiesto quale funzione spettasse all’arte in un mondo investito dal cambiamento e dominato dalla politica. Poteva esistere in questo contesto un’arte nazionale? Le risposte furono le tanto discusse prese di posizione delle «Considerazioni», in cui Mann ragiona da artista che nella guerra giustifica l’opportunità patriottica di sentirsi tedeschi e che da conoscitore di Nietzsche si pone da un punto di vista prettamente estetico per giudicare il rapporto tra l’arte e la vita (o forza vitale). Egli interpreta la decadenza di un mondo gettato nel vortice della guerra da un punto di vista nazionale, anzi nazionalistico. Si tratta di argomenti ripresi nella «Montagna incantata», ma con altro spirito, soprattutto con il personaggio di Settembrini, che rappresenta esattamente quel filosofo della ragione illuministica che viene avversato nelle «Considerazioni». Ma la critica al progresso democratico nella «Montagna incantata» è praticamente scomparsa. Si pensi alla sorte che spetta all’antagonista di Settembrini, l’infelice Naphta, gesuita di origine ebraica, che finisce sconfitto da un punto di vista dialettico e infine suicida; le sue argomentazioni misantropiche non convincono Castorp, che fa da arbitro tra i due, e risultano reazionarie quanto sterili. La stessa reazione indispettita del protagonista contro le sedute spiritiche, in una delle ultime vicende narrate nel libro, attesta il ripudio dell’irrazionalismo da parte del protagonista e probabilmente dello stesso Mann. Nel discorso agli studenti di Princeton egli non entra nel merito delle questioni a cui si è accennato, ma aggiunge i titoli dei saggi critici connessi alla «Montagna incantata» che ne ritardarono la stesura: «Goethe e Tolstoj» (autori presi come modelli di estetica), «Della repubblica tedesca» ed «Esperienze occulte». Gli autori citati ed elogiati, Goethe e Tolstoj, mostrano una maturità che non è solo espressiva ma anche spirituale, ed è un chiaro indizio del cambiamento di poetica di Mann. La conferma l’abbiamo prendendo in esame «Della Repubblica tedesca» (1922), in cui rinnega almeno in parte le tesi antipolitiche e antidemocratiche contenute nelle «Considerazioni» e aderisce all’esperienza della repubblica di Weimar.

Nel 1924 il successo editoriale della «Montagna incantata» sorprese lo stesso autore, che riteneva i temi del suo libro inadatti al lettore comune; ma la massa delle persone colte si riconosceva nei problemi che nel romanzo assillano il sempliciotto Hans Castorp, capace di comprenderli meglio grazie alla sua maturazione culturale e spirituale nei sette anni in cui rimane in sanatorio. Eppure, nonostante la complessità e la lunghezza del testo, Mann ne consiglia una rilettura agli studenti di Princeton. Ritiene che l’arte debba dare gioia e una seconda lettura potrebbe “divertire” di più il lettore e mostrare meglio l’importanza dello stile e della musica. Mann qui si riferisce propriamente all’influsso della musica di Wagner, di cui è esperto e di cui ha scritto a parte. E la sua idea di romanzo è chiaramente delineata: Per me il romanzo è sempre stato una sinfonia, un lavoro di contrappunto, un tessuto di temi dove le idee fanno la parte dei motivi musicali. Di questo intreccio, che segue il modo simbolico della musica, si può afferrare esattamente e gustare il suo ideale e musicale complesso di rapporti solo quando se ne conoscono i temi e si è in grado d’interpretare l’allusione simbolica delle formule non solo come riferimento al passato, ma anche come anticipazione del futuro.
Fin qui l’autore ha chiarito il contesto culturale e intertestuale che ha accompagnato la sua opera permettendole di esistere così come la conosciamo, ma ora il suo compito cambia. Si tratta di entrare “nel” romanzo. Lo ha fatto nella Premessa, affermando che la vicenda di Castorp è lontana nel tempo, già tutta coperta di nobile patina storica, giacché si è svolta prima di una grande crisi (Mann si riferisce alla Grande Guerra) e al tempo stesso conserva una relazione con il presente, che assicura ad essa la sua natura fiabesca, capace di “divertire”: siamo propensi a credere che soltanto ciò che va in profondità riesce a divertire. Per questo, conclude Mann, l’autore dedicherà tutto il tempo che serve alla storia di Castorp e della sua permanenza al Berghof di Davos, ovvero sulla “montagna” che lo isola dal mondo e che lo sottrae alla quotidianità e alla Storia, confinandolo in un’aura di magia.

[…] Il primo pezzo, a cura di Vittorio Panicara, è la prima parte di una recensione in due dedicata a La montagna incanta di Thomas Mann. Vittorio ripercorre la lezione tenuta dall’autore a Princeton nell’anno 1939 per condividere approfondimenti sulla sua opera e le influenze che l’hanno plasmata. La recensione vi offre un’immersione nel mondo di Mann, rivelando le sfumature e le connessioni che rendono “La montagna incanta” un’opera senza tempo. 🏔️📖 Qui l’articolo completo: THOMAS MANN E LA SUA LEZIONE ALL’UNIVERSITÀ DI PRINCETON DEL 1939 SU «LA MONTAGNA INCANTATA»: 1… […]
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[…] THOMAS MANN E LA SUA LEZIONE ALL’UNIVERSITÀ DI PRINCETON DEL 1939 SU «LA MONTAGNA INCANTATA»: 1… Leggi qui sopra la prima parte dell’articolo […]
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[…] LEGGERE «I BUDDENBROOK» DI THOMAS MANN (di Vittorio Panicara). THOMAS MANN E LA SUA LEZIONE ALL’UNIVERSITÀ DI PRINCETON DEL 1939 SU «LA MONTAGNA INCANTATA»: 1… THOMAS MANN E LA SUA LEZIONE ALL’UNIVERSITÀ DI PRINCETON DEL 1939 SU «LA MONTAGNA […]
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chissà se andando al Berghotel Schatzalp si può ascoltare il rumore della porta vetri della sala da pranzo che una donna dagli occhi chirghisi provocava ogni volta che entrava….
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